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Anno edizione: 2017
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
mini saggi su scrittori (ma non solo) che hanno in comune due cose: hanno un'ossessione; sono l'ossessione di Mari. sono 700 pagine, ma non annoiano mai.
Fedele al precetto di Manganelli, che esortava a cercare la letteratura «nelle fogne», «in mezzo ai topi, in mezzo agli escrementi», Mari declina una corposa autobibliografia sentimentale che nasce proprio nelle sentine dei terrori e dei sudori infantili, delle nevrosi, delle passioni furibonde e settarie, dei rancori, delle stizze, privilegiando gli autori più affini e denunciandone altri in cui le origini infernali della letteratura stessa, benché esibite, gli paiono affettate e fasulle. Pochi i passaggi discutibili, che non inficiano la qualità del lavoro. Una boccata d’aria fresca.
Splendidi e illuminanti saggi letterari, in particolare quello sapiente e arguto dedicato al grande Tommaso Landolfi. Queste intime riflessioni sulla natura della letteratura, coincidono in toto con la mia visione personale e non sono d'accordo con il precedente recensore che associa preconcettualmente letteratura e "salvezza", per alcune persone funziona proprio in questo modo, per altre purtroppo è l'esatto contrario, non è detto che la cultura migliori l'interiorità di una persona, a volte si tratta soltanto di un semplice amplificatore, conosco molte persone di grande erudizione e cultura, ma che sono allo stesso tempo soggetti detestabili, pericolosi e malvagi. Consiglio inoltre un altro saggio letterario, un punto di vista simile ma più d'impatto, violento ed intellettualmente anticonvenzionale, ossia "Discorso dell'ombra e dello stemma" di Giorgio Manganelli, mai letto un saggio di simile potenza, vero e proprio annichilimento cerebrale.
Recensioni
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Se Michele Mari pubblica un libro autobiografico la circostanza non dovrebbe essere salutata come una novità: per ammissione dell’autore medesimo, infatti, tutta la sua scrittura è sempre stata impastata nella materia autobiografica. E invece la novità c’è: Leggenda privata è un libro dichiaratamente e apertamente autobiografico, come lo era quello che non sarà inverosimile intendere quale sua anticipazione mediata, quell’ «autobiografia per feticci» che Mari ha dato alle stampe un paio di anni fa con il titolo di Asterusher . Dai feticci raffigurati nelle fotografie di Francesco Pernigo – oggetti e ambienti – si passa qui a una vera e propria discesa alle Madri, anzi ai Genitori, se così si può dire, che quasi giocoforza si modella come un «romanzo dell’orrore». Le figure genitoriali, spesso soltanto accennate nei testi precedenti, ora vengono affrontate a viso aperto, con tanto di nomi, di situazioni e, ancora una volta, di fotografie, a cominciare da quella che campeggia in copertina, nella quale il piccolo Michele si frappone con aria di sfida tra la madre e lo sguardo fotografico del padre.
Il romanzo si apre con un rovesciamento di prospettiva: se in altre opere era l’autore a evocare i mostri, adesso sono loro – riuniti in «Accademia» – a convocare lui, a imporgli il passaggio pressoché obbligato del romanzo familiare, di «un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo». Da lì, dopo qualche esitazione, prende il via una narrazione priva di linearità cronologica e intervallata da momenti onirici, costruita per associazioni, per bagliori, una narrazione che ha appunto la forma di una discesa, di uno scavo stratigrafico nell’orrore dei propri mostri (segnatamente familiari). Ne scaturisce un’autobiografia che è possibile riassumere con queste parole: «Solitudine, palpitazioni, nevrosi: ecco, intanto con questo trilogo ho già raccontato il grosso». La solitudine è quella di un bambino talvolta addirittura deprivato dei contatti con i propri coetanei («Angelo Gioia non metterà più piede in questa casa», sentenzia il padre dopo la visita pomeridiana di un compagno di scuola) in nome di una sorta di unicità dei Mari, della loro superiorità intellettuale, mentre il piccolo Michele desidererebbe un padre «normale». Le palpitazioni le suscita soprattutto una figura femminile dell’adolescenza, anch’essa tenuta a debita distanza dalla famiglia, la Donatella-Ivana-Loretta dalle cui mani il giovane Michele compra il Mottarello: tra le tante figure del romanzo è la più sana, perché risponde a una pulsione erotica primaria, perché incarna forse la prima scoperta del femminile. E sotto questo aspetto è al contempo illuminante e terribile il breve confronto tra il padre e il figlio adolescente riguardo al sesso: da una parte una visione strumentale, quasi cinica, della sessualità, dall’altra l’idea dell’onanismo «come stato permanente e indelebile dell’essere al mondo». In termini astratti, da una parte c’è il design (di cui Enzo Mari è una figura rilevantissima), cioè la concretezza delle cose, la dimensione economica; dall’altra la letteratura, il «ricamo» delle parole, il «frin-frin» (secondo le parole sprezzanti dello stesso padre).
E al terzo lemma del trilogo, la nevrosi, la letteratura deve moltissimo. Non solo lo si comprende dalla lettura di Leggenda privata, che in sostanza documenta l’educazione di uno scrittore, ma anche da quella di un altro libro che Michele Mari ha mandato pressoché contemporaneamente in libreria, ossia la terza edizione (è la volta del Saggiatore) dei Demoni e la pasta sfoglia, libro mostruoso sia per la mole – siamo ormai, a tredici anni dalla prima pubblicazione, ben oltre le settecento pagine – sia per i suoi abitatori, mostri letterari (e non solo) di ogni genere. La fortunata congiuntura editoriale è assai feconda, perché i due libri paiono illuminarsi a vicenda, pieni come sono di rimandi reciproci, a partire da quei demoni cui si consacra la letteratura. Proprio scrivendo, infatti, gli scrittori «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano, finché, posseduti, essi diventano quegli stessi demoni». E di questi sono appunto popolati entrambi i libri, al punto che viene voglia di considerare anche la raccolta di saggi come una autobiografia per feticci, o magari per ossessioni; del resto alle ossessioni e ai feticismi sono dedicate due parti piuttosto consistenti del volume. Michele Mari non ha mai nascosto la necessità di un confronto corpo a corpo con la tradizione e con la memoria letteraria, del quale I demoni e la pasta sfogliarappresenta il sommo documento. Al fondo delle ossessioni c’è quella della forma, per la «pasta sfoglia verbale», con un rimando metaforico tutt’altro che casuale: la pasta sfoglia si realizza con una procedura complicata, difficile, lenta; non è un prodotto di immediata preparazione. E lo stesso vale per la scrittura (convincenti e ripetuti sono gli strali che Mari lancia nei confronti di qualunque tipo di minimalismo letterario).
C’è nel romanzo una metafora che rinvia direttamente ai giri e alle pieghe della pasta sfoglia: quella della coclea che protegge il «soggetto molle», quella «persona irrisolta e divisa» frutto di una ferita: «come un paguro indifeso, mi son dovuto cercare e trovare una bella coclea, spiraliforme, robusta, placcata di durissima madreperla». Ma qual è questa ferita, da dove trae origine la scissione? Naturalmente nella famiglia, sembra rispondere Leggenda privata, nella frattura, non solo fisica ma anche caratteriale e sociale tra i genitori (per dire, i nonni materni borghesi e i nonni paterni proletari non si incontrarono mai): se per il padre severo e durissimo, totalmente immerso nel proprio lavoro di designer, l’affetto è «ammirato, dimolto guardingo», per la madre Gabriela, «una perfetta macchina di dolore», vittima di sé stessa, della propria madre e di Enzo Mari, l’affetto non può che essere «afflitto». Non è un caso che Leggenda privata narri esclusivamente vicende dell’infanzia e della giovinezza, perché è lì che tutto si plasma (alla sanguinosa infanzia è notoriamente intitolato uno dei libri più belli dell’autore); Mari si è affacciato sul «lutulento botro delle proprie angosce e ossessioni» (l’espressione sta nei Demoni e la pasta sfoglia) per poi gettarvisi a capofitto. E come per ogni ossessione, per ogni trauma, c’è una scena primaria in cui tutto si condensa e si compendia: il buio della notte, lontane urla di una lite furibonda tra i genitori, rumore di vetri infranti, un lungo corridoio, una scarpa femminile colma di sangue; «un’immagine degna di un onesto film horror, e deputata a figurare sulla copertina del dvd», scrive Mari. È l’immagine appunto che riassume tutta la vicenda e avrebbe potuto fungere da copertina del libro, se oltre che nella mente di quel bambino di otto-nove anni fosse rimasta impressionata anche su una pellicola; immagine che peraltro getta una luce ancor più sinistra sull’aggettivosanguinosa collocato accanto al sostantivo infanzia. Per proteggersi da tutto questo è nata la necessità di costruirsi una corazza di parole e di libri, una coclea di solitudine e di nevrosi. La coclea è anche la forma del romanzo, è lo stile che consente di sfuggire al pericoloso mito dell’immediatezza, nel momento in cui ci si volge alla palpitante materia dell’autobiografia; solo con le armi della letteratura ci si sottrae alle insidie del patetismo e del sentimentalismo. Leggenda privata sembra ribadire le ragioni della letteratura esposte con dovizia di esemplificazioni nei Demoni e la pasta sfoglia: «la letteratura è tanto più forte quanto più essa è tautologicamente letteraria».
E se la letteratura dà voce alle ossessioni, anzi ne assume precisamente la forma, talvolta rappresenta persino un risarcimento: nelle sue volute a spirale la coclea può assumere una forma acuminata e, pur mantenendo la propria funzione protettiva, può ferire a sua volta. Qualcosa del genere lo aveva compreso Enzo Mari al momento della pubblicazione di Tu, sanguinosa infanzia, giusto venti anni fa, rimproverando al figlio «che la letteratura non dovrebbe essere mai impiegata per un “regolamento di conti”». Ma già nel 1820 Leopardi, autore che nel pantheon di Michele Mari occupa un posto di assoluto rilievo, scriveva a Pietro Giordani di aver concepito «certe prosette satiriche», «quasi per vendicarmi del mondo». Quelle prosette satiriche qualche anno dopo avrebbero assunto il titolo di Operette morali, cioè uno dei vertici della nostra letteratura. Dunque si può fare (grande) letteratura e insieme trovare una riparazione almeno momentanea alle ferite della vita. E così l’intero romanzo sembra emanare dallo sguardo di Mari bambino ritratto nella foto di copertina; e, per assonanza, la leggenda privata si volge in vendetta privata.
Massimiliano Manganelli
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