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È l’inverno del 1619. Il giovane Cartesio passa alcuni mesi in una cittadina della Baviera, sommersa dalla neve e insanguinata dalla Guerra dei Trent’anni: massacri, saccheggi, incendi, stupri, ruberie. “Guerra e furia di lupi - / L’artiglio del demonio attraversa l’Europa”. Costretto all’inazione, si mette a riflettere su alcuni problemi di algebra e di geometria, prendendo in considerazione tutto ciò che vede e sente, senza mai prescindere dai suoi fondamentali processi mentali. Il cogito cartesiano ha infatti la prevalenza su qualsiasi altro argomento: “Non mi serve l’esterno. Ho da guardarmi dentro. // A me va contre coeur ogni fuga dal mondo”. Il mondo e la mente, essere e pensare. Senza mai prescindere dalla fisicità del corpo, steso nel bianco del letto, mentre fuori è tutto candido di gelo e silenzio. Un corpo che ha necessità materiali e sessuali, che mangia e piscia, si ammala e delira, rimanendo tuttavia un inciampo nell’attività preminente dell’elucubrazione mentale. La regola che dà ordine al caos si afferma regina (“In tutto regna numero e rapporto. Felicità: di essere impregnati / di coerenza”): spietato, il razionalista francese non concede a sé e agli altri la minima indulgenza verso credenze consolatorie. Grünbein, sulla base di fonti storiche, dei diari e degli appunti di Descartes, ha ricostruito la sua biografia a partire dai mesi trascorsi a Neuburg fino agli anni svedesi, alla corte della sovrana Cristina, dove morì di polmonite nel 1649, circondato dal seguito protocollare di striscianti e ottusi leccapiedi (intense e commoventi le pagine finali sull’agonia). Anna Maria Carpi nella postfazione giustamente suggerisce che l’inverno rappresenta qui una metafora della condizione moderna, inaugurata proprio con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa: “Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e coi suoi simili”.
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