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2004
1 febbraio 2005
X-170 p.
9788884982186

Voce della critica

Il lettore che si troverà anche solo a sfogliare il libro di Gennaro Sasso su Delio Cantimori, un lettore che abbia prestato attenzione alla polemica rimbalzata negli ultimi mesi da un quotidiano all'altro intorno alla controversa personalità dello storico romagnolo, quel lettore resterà soprattutto impressionato dalla distanza che separa le tesi ragionate nel libro da quelle, pur così diverse e a volte in netta opposizione tra loro, sostenute dai partecipanti alla polemica. Non è una questione di generi letterari: gli articoli di giornale sono articoli di giornale e non possono (né devono) essere libri, sia pure in miniatura. E sia chiaro che, entro i termini della polemica, tra coloro i quali considerano una colpa l'aver tradotto e studiato le fonti, pensato e ripensato con acume ma anche con partecipe passione le "ragioni" del fascismo e del comunismo, e chi, come Bruno Bongiovanni, Roberto Pertici o Adriano Prosperi, ritiene invece che su certe materie la conoscenza sia sempre da preferire all'ignoranza, la propensione di chi scrive non può non essere che per i secondi. La "solitudine" del libro di Sasso sta però nel considerare l'adesione di Cantimori al fascismo, e poi al comunismo, nelle forme particolari che assunse, niente più e niente meno che una (anche se non certo la meno importante) tra le "fonti" attraverso cui ricostruire il "pensiero" cantimoriano. Un pensiero difficile da etichettare, perché, scrive Sasso, Cantimoriappartiene a quella "zona grigia",a quel momento di passaggio dall'irrazionale alla razionalità, dalle passioni che non sono solo passioni alla filosofia che non è solo filosofia.
Così, se il sentimento complesso e mai pacificato di Cantimori verso il nazismo e il fascismo assume per alcuni anni i connotati di un atteggiamento "scientifico", apparentemente senza simpatia né antipatia, l'interprete del suo pensiero, piuttosto che dichiarare semplicemente (e furbescamente) l'ambiguità di questo atteggiamento, ne cerca con fatica la "ragione"; in quel groviglio di passioni e idee dalle quali emerge incontrovertibile il fatto che, a Cantimori, il nazifascismo e i suoi teorici (Ernst Jünger, Carl Schmitt, e persino Arthur Moeller van den Bruck) interessavano più della democrazia e dei suoi fautori; che, stretta tra nazifascismo e bolscevismo, l'era della borghesia liberale e del "progresso" doveva considerarsi finita; e che, in ultima analisi, "era giusto che andassero incontro al loro destino di morte". Da qui anche l'attenzione di Cantimori al "pensiero" di Marx piuttosto che alla sua "dottrina", a un pensiero studiato rigorosamente sulle fonti, ma poi ricondotto, con altrettanto rigore (e anche qui non senza dolorose ambiguità) sul piano "disincantato" e "weberiano" della storiografia; un piano nel quale la filosofia di Marx si intreccia con le convinzioni religiose, con l'etica e con la politica. Risulta da questo intreccio, per Sasso, l'aspetto caratteristico del marxismo di Cantimori: non tanto "canone d'interpretazione storica" (come per Croce), quanto, piuttosto, "strumento potente di demistificazione ideologica, da usarsi anche nei confronti del marxismo stesso". Non che per questo egli arrivasse a una sua "deteorizzazione", semmai a una diversa teoricità del marxismo, "non esibita e non elaborata, ma volta tuttavia con chiarezza a garantire l'oggettiva verità delle cose".
Ancora da quella stessa "zona grigia" prende avvio lo studio sugli eretici pubblicato nel 1939; da un'attenzione rivolta, non a un passato sepolto dal trascorrere dei secoli, ma "sommerso" dalla "volontà politica". Uno studio che parte come una storia "filosofica", ma accetta presto di irradiarsi in ogni direzione, di incrociarsi e ampliarsi attraverso tutte le relazioni possibili, di congiungersi con la "bella e disperata ricchezza dei particolari", fino a divenire un'altra storia: una storia di uomini e di gruppi che, in cerca di libertà, con una prudenza e un riserbo acutamente assimilati da Sasso alla prudenza e al riserbo di Cantimori, riemergono a tratti nel corso dei secoli, perché lo storico ne possa dissipare il velo di fascinoso mistero che li avvolge. Una storia che, tormentosamente, torna e ritorna però sul punto "filosofico" di partenza, sul quale altrettanto tormentosamente si era dibattuto Croce: se infatti è comune a entrambi la "simpatia" intellettuale per gli eretici, ai pensieri dei quali le chiese risposero, invece che con altri pensieri, con i patiboli e con i roghi, comune ai due è anche la difficoltà di assegnare la ragione "strutturale" alla libertaria e disarmata "antipolitica" degli eretici, e il torto alla machiavelliana (benché involgarita) "politica" delle chiese.
Ma la "solitudine" del libro di Sasso consiste soprattutto nel non rifiutare la sfida della problematicità: questa è la "vocazione più profonda" di Cantimori, ma anche, sia detto per inciso e malgrado il monito di Sasso a non fermarsi alla banalità di questa constatazione, la cifra inconfondibile degli studi sassiani, da quelli su Niccolò Machiavelli e Benedetto Croce, a quelli su Dante e Giovanni Gentile. Quel senso di "rugosità", quell'effetto "cubistico" di incompiutezza e di dissonanza, che l'opera di Cantimori evocano, trovano così nel libro di Sasso l'adesione umana di chi conosce il logorio che si prova nel sostenere l'urto del molteplice. E l'adesione "problematica" del filosofo, visitato dalla tentazione di ritrarre lo storico impegnato, come e prima di lui, "a sostenere un'impari lotta con l'angelo della filosofia". Il Cantimori che Sasso ricorda, attraverso l'aneddoto narrato da Guido Calogero, seduto in prima fila ai seminari filosofici pisani, sempre ostinatamente silenzioso, ma intanto sempre lì, "sul luogo del delitto", quasi a voler "persuadersi, fino in fondo, che in lui la filosofia era morta sul serio", quel Cantimori è lo stesso che attraversa con immutata serietà le filosofie di Carl Schmitt e Giovanni Gentile, di Benedetto Croce e di Karl Marx, uscendone senza gesti clamorosi, ma non senza che qualcosa gliene resti dentro. Perché se Cantimori fu avverso alla filosofia, la sua avversione è cosa assai diversa da quella "scipita" di coloro che la combattevano senza sapere nemmeno che cosa fosse. Se ai sussurri della filosofia Cantimori preferiva la voce della "onesta e buona storiografia che guarda ai fatti e li ricostruisce per quel che sono", egli sapeva pure che i fatti includono anche qualcosa che va oltre i fatti stessi.
Per questo motivo, perché nel pensiero di Cantimori Ranke non ha vinto del tutto Hegel (e Leibniz, e Spinoza, e Kant), Sasso può riferire, con il tono di chi lo condivide, l'invito, che lo storico romagnolo soleva rivolgere ai suoi allievi, a rimanere "terra terra" ma a "zappare" in profondità; e affermare allo stesso tempo che il "motto" è contradittorio, e che la filosofia, così scacciata, torna "da più parti", e in forme inconsapevoli. È un ritorno non esente da dolori e malinconie; ed è un accordo malinconico quello con il quale Sasso si interroga, nell'ultima pagina del libro, sul perché quest'uomo dotto e intelligentissimo, disposto come nessun altro nel Novecento, a parte Croce, alla conversazione larga e duratura con i contemporanei, a capire la loro opera e a spiegare loro la sua, con gli scritti e con le parole, "uno dei grandi maestri del secolo scorso", perché quest'uomo non volle, in nessun momento della sua vita, essere riconosciuto come il grande maestro che era.

Maurizio Tarantino

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