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Debite proporzioni - Andrea Menetti - copertina
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Debite proporzioni - Andrea Menetti - copertina
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Descrizione


È solo un ragazzo, Umberto Redondi, quando, nel clima di rappresaglie, che coinvolse l'Appennino emiliano-romagnolo nel Dopoguerra, vede e ascolta quello che non avrebbe mai voluto né vedere né sentire. "Debite proporzioni" è il racconto di una mezza giornata di quel ragazzo divenuto uomo, in bilico tra gli affetti familiari e dilaniato dal senso di colpa che, ancora a distanza di vent'anni, ha sete di verità e cerca di dissolvere il velo dell'apparenza, declinata nei consueti ruoli delle "voci" e dei "fatti". Il destino busserà alla sua porta prendendo le sembianze di una donna misteriosa, con la quale inizierà un enigmatico colloquio fatto di accelerazioni e sferzate improvvise, di silenzi prolungati e domande perentorie, che costituisce il preambolo drammatico fondamentale alla risoluzione degli eventi.
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Dettagli

2012
9 maggio 2012
128 p., Brossura
9788878473973

Voce della critica

Le tendenze prevalenti dell'odierna narrativa italiana si rivolgono alternativamente verso l'autofiction, il romanzo ispirato al fatto di cronaca, il racconto della violenza efferata o il romanzo di genere. Si cerca in ogni modo di agganciare realtà e scrittura attraverso un vincolo a un tempo credibile e ambiguo. Debite proporzioni di Andrea Menetti, invece, si colloca su un'altra linea, fuori da qualsiasi voga momentanea: alle spalle c'è una lunga tradizione, che accetta l'anacronismo della trama per riscattarlo con l'universalità della condizione rappresentata. Tra i riferimenti notevoli potremmo indicare D'Arzo o il primo La Capria (nomi fatti da Ivo Iori nella Nota introduttiva); ma non si sbaglierebbe a citare anche il Flaiano di Tempo di uccidere: analoghe sono la vicenda collocata in una geografia e in un tempo storico precisi ma soltanto pretestuosi (l'Emilia della guerra civile e degli anni della ricostruzione), un'esperienza dall'estensione limitata che si dilata nello spazio della coscienza e un confronto con la relatività degli eventi e delle loro interpretazioni. Menetti, che ha alle spalle importanti pubblicazioni di saggistica, fa il suo esordio romanzesco ricostruendo una giornata di vita di Umberto Redondi, che parte dalla sua Bologna, dove lascia la moglie e un vecchio amico di infanzia, per rifugiarsi nella proprietà di famiglia, a Poggio, alle pendici dell'Appennino. È in fuga da un matrimonio inariditosi, da una situazione finanziaria stringente, ma soprattutto dal senso di colpa per qualcosa che, negli anni della guerra civile, ha visto e di cui porta l'irremovibile peso. L'incontro con Aurora Campi, alla quale si stringe in un legame più intimo di quanto i fatti rivelino, lo porta a intraprendere un dialogo fatto di domande e silenzi, la confessione di una verità di cui non riesce a ricostruire le premesse e sulla quale aleggiano le ombre di un padre illustre, ma collaborazionista e fedifrago. A raccontarci la storia è un narratore che solo a metà libro si rivela come un "io": non è testimone di quanto dice, ma appartiene alla comunità di cui fa parte anche Redondi. Sfogliando le fotografie di un vecchio album prova a ricostruire una vicenda intricata che, passando anche per la bocca di vicini e conoscenti, è stata condizionata, manipolata, fraintesa. Il vero piano del racconto, però, è quello della coscienza di Umberto, che intreccia la dimensione di una memoria che "lui stesso desiderava dimenticare" a quella del presente, componendo una realtà dove tutto coesiste e si confonde, dove le cause non precedono le conseguenze, e queste, quindi, non trovano più una motivazione, una giustificazione, una responsabilità. L'interpretazione prova ad affrancarsi aggregandosi intorno ad alcuni simboli: un quadro di Mazzieri, La montagna incantata di Mann, una mano tremante. Tuttavia rimane un margine che non è dato superare: il limite che separa l'ambiguità dalla certezza, lo spazio della formazione del giudizio. Le "debite proporzioni" a cui il titolo allude possono trovare una sistemazione soltanto provvisoria; ma di fronte a una colpa indicibile, questo non è sufficiente. Anche la sintassi rispecchia questo grumo emotivo e psicologico; il tentativo di ricostruire la meccanica della coscienza di Umberto Redondi s'incaglia continuamente di fronte all'ostilità della verbalizzazione, carica e non sempre controllata, aggrovigliata tra incisi, pause e dislocazioni. Il lettore rimane così sospeso – e sorpreso dal finale improvviso – ma in qualche modo anche respinto. Ed è proprio questo che si può imputare all'autore: lo sforzo di costruire e indagare produce una parola ostile, difficile, sempre aspra. È un senso di impossibilità che rimane a fine lettura; la sensazione di un'irriducibilità della coscienza e dell'etica alle nostre stesse capacità di comprendere. "Ogni discorso, alla fine, è provvisorio, e al lettore – o all'uditore – non rimarrà che osservare gli accenti, il loro peso, la loro misura". Giacomo Raccis

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