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2
1997
334 p.
9788817845298

Voce della critica


recensione di Donzelli, C., L'Indice 1997, n. 9

Eric J. Hobsbawm è lo storico che forse meglio di ogni altro, negli ultimi decenni, ha rappresentato la storia contemporanea. Ne ha incarnato le aspirazioni, le consapevolezze, le capacità euristiche; ne ha messo in scena anche gli umori, i dubbi, le incertezze; ne ha, soprattutto, rivendicato con coerente ostinazione il carattere "moderno" e "positivo", contro ogni tentativo di scalfirla, di delegittimarla, di revocarne in dubbio i risultati.
Non sono tempi tranquilli per la storia contemporanea, quelli che stiamo passando. Messa in crisi, ormai da parecchi decenni, l'idea di uno sviluppo evolutivo lineare, e con essa quella di un procedere del corso degli eventi per emulazione e rincorsa di presunti modelli, la storia contemporanea ha dovuto conoscere, più di recente, una perdita di centralità e di sicurezza, una sorta di messa in discussione radicale dell'egemonia di cui aveva potuto godere per lungo tempo nell'ambito delle scienze sociali. Disciplina per sua stessa natura esposta ai rischi di ricostruzione del passato tese a "legittimare" il presente, essa si era potuta presentare, negli anni centrali di questo secondo Novecento e nella sua più consapevole versione scientifica, come una forma di "critica della legittimazione", come uno strumento in grado di spiegare il significato, il senso, l'orientamento del corso storico, di là da ogni argomentazione di comodo. E giacché il presente era - ed è - rappresentato dagli esiti trionfanti del capitalismo e delle società di mercato, capaci di sancire sempre di più il proprio predominio sul mondo intero, la storia contemporanea si era assunta per un lungo periodo il compito, più o meno dichiarato ed esplicito, di criticare questo presente, di svelarne difetti e contraddizioni, di mostrarlo non nel suo statico autocompiacimento, ma nella sua dinamica caducità.
Uno dei punti di forza di un simile impianto critico - non il solo, ma di gran lunga il più importante e potente - è stato rappresentato dalla storiografia di ispirazione marxista, che non a caso ha assunto, tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ottanta, una posizione centrale, e persino di netto e crescente predominio, anche nei circuiti accademici situati nel cuore dell'Occidente capitalistico.
Eric Hobsbawm ha rappresentato al meglio una simile vocazione. I suoi grandi affreschi sull'Ottocento, da "Le rivoluzioni borghesi (1789-1848)" (Il Saggiatore, 1963), a "Il trionfo della borghesia (1848-1875)" (Laterza, 1976), a "L'età degli imperi (1875-1914)" (Laterza, 1987), sono forse il prodotto più maturo e consapevole di una scuola storiografica di cui Hobsbawm ha assunto per indiscussa forza e prestigio il ruolo di capofila.
Ora, è precisamente questa sicurezza del ruolo, questa certezza del punto di vista critico, questa egemonia della disciplina nel fornire una cornice interpretativa generale al mondo in movimento, che è entrata violentemente in crisi nell'ultimo decennio. Ed è la storia - la storia dei fatti, degli eventi che segnano con la loro irreversibile consistenza il profilarsi di situazioni nuove - a scandire le tappe di quella che si potrebbe definire come una incipiente "crisi di ruolo" della storia contemporanea. Il crollo del mondo comunista, con tutte le conseguenze che esso ha comportato, non solo ha chiuso precocemente un secolo costretto dalla sua stessa concitazione a essere "breve" ("Il secolo breve, 1914-1991" è il titolo dell'ultimo grande volume di sintesi scritto da Hobsbawm e pubblicato da Rizzoli nel 1995; cfr. "L'Indice", 1995, n. 6), ma ha messo in crisi la parabola stessa della storiografia contemporaneistica, così come si era evidenziata nei decenni precedenti.
La raccolta di saggi pubblicata di recente da Hobsbawm con il titolo "De historia", e che raccoglie 21 scritti composti in un arco di tempo che va dal 1968 al 1995, vede la luce non a caso in coincidenza con questo punto di tensione e di lacerazione critica. Essa sembra avere il compito precipuo di rivendicare una coerenza del lavoro storiografico svolto, e nello stesso tempo di riconoscere con grande lealtà intellettuale gli errori e le sconfitte.
Non è, beninteso, un combattente che abbassa le armi, un arrendevole portatore d'acqua al mulino dei vecchi avversari, quello che queste pagine ci mostrano. Di fronte alla crisi così drastica ed evidente di tutto un mondo politico e ideale, che rischia di trascinare con sé anche la distruzione delle proprie certezze disciplinari, portando il tarlo dell'insicurezza fin nel cuore del proprio mestiere di storico, Hobsbawm si difende da par suo: come un leone. Rivendica a pieno la forza del punto di vista sostenuto; rienumera con acribia i presupposti concettuali e i risultati analitici, polemizza con perfida e sublime amabilità contro i "post-modernisti", i "relativisti", i seminatori di incertezze. Rivendica a pieno titolo - lui che certo non è mai stato un ortodosso - la forza euristica del materialismo storico di Karl Marx, "la guida di gran lunga migliore alla storia".
Visti da chi, per motivi non solo anagrafici, ha guardato con gli occhi ammirati dell'apprendista i frutti del lavoro di questo maestro, i saggi di questo libro - articoli, conferenze, recensioni, noterelle polemiche, pane quotidiano di una insaziabile pratica intellettuale - si prestano dunque a due possibili letture.
La prima è quella di un itinerario di formazione: una sorta di straordinaria passeggiata dentro i luoghi più densi e frequentati del dibattito storiografico degli anni sessanta, settanta e ottanta. Vi si ritrovano i raffronti (e le consonanze) tra la storiografia marxista e la lunga e proficua - ancorché distante, per presupposti politici e concettuali - esperienza delle "Annales". È possibile ripercorrere, nelle sue tappe essenziali, la discussione cruciale circa il rapporto tra la storia e le altre scienze sociali, con l'orgogliosa rivendicazione di un superiore, egemonico, predominio teorico della prima sulle seconde. Si possono rintracciare le coordinate di una concezione della storia sociale come storia "tout court". Né peraltro queste questioni definitorie e di etichetta impediscono poi la nettezza del giudizio, la sicura e decisa - e quanto condivisibile, "ex post"! - individuazione dei quattro libri fondamentali di quel decisivo ambito di ricerca che è stata in quegli anni la "storia sociale": "Quello di Lawrence Stone sull'aristocrazia elisabettiana, di Emmanuel Le Roy Ladurie sui contadini della Linguadoca, di Edward Thompson sul costituirsi della classe operaia inglese, di Adeline Daumard sulla borghesia parigina". Si possono scorgere, parallelamente, gli spigolosi raffronti tra la storia e l'economia, con le relative polemiche contro un'interpretazione puramente quantitativa, "cliometrica" della storia economica ("Storici ed economisti", 1980). O ancora incontrare la raffinata perorazione sull'utilità di una "storia controfattuale", che si chieda cioè, contro il luogo comune che lo sconsiglierebbe, "cosa sarebbe successo se...".
Dall'alto di una dichiarata autoconsapevolezza egemonica viene del resto giudicata anche la posizione dei "microstorici", la cui forte battaglia di quegli anni viene ridotta alla legittimità - un poco ovvia e scontata - di un possibile punto di vista. Cos" come dall'alto di una sicura riaffermazione della centralità del cambiamento, della forza della trasformazione storica, si sviluppa la polemica con lo struttural-funzionalismo di Lévi-Strauss e di Althusser, che riduce il mutamento storico a pura e semplice "permuta e combinazione di alcuni elementi", a un banale "riproporsi di tutte le varianti possibili", senza che a questo punto la teoria ci possa fornire "alcuna guida" per interpretare la direzione del "movimento storico" ("Che cosa devono gli storici a Karl Marx", 1968).
Si diceva dunque di un primo approccio possibile a questi saggi, in termini di ripercorrimento di un itinerario: e vi è da aggiungere che mai i sentieri battuti si presentano come asciuttamente metodologici. Giacché - ed è questa la caratura che distingue veramente lo storico di razza, il maestro e il campione, dal semplice onesto praticante - non vi è passaggio del ragionamento che non si appoggi su una calzante evocazione dell'esempio concreto, del caso specifico, in un tripudio di informazioni circostanziate che spaziano su tutto l'ambito temporale e su tutti i possibili luoghi geografici della storia contemporanea; senza un filo di compiacimento, senza ostentazione erudita; anzi, con l'ironia e l'"understatement" di chi si diverte ancora a cercare tra i fatti.
Ma vi è un secondo, possibile modo di leggere questo libro: ed è quello di affrontarne di petto i punti critici; di isolare alcuni nodi concettuali ancora aperti - o forse più che mai aperti - su cui vale la pena di discutere. La questione cruciale rimane, da questo punto di vista, quella della polemica contro il postmodernismo, che è la vera chiave di volta per capire il modo con cui questa stessa antologia di saggi è stata organizzata dal suo autore. Gli argomenti affrontati, come vedremo, sono diversi, ma il motivo conduttore è uno e uno soltanto. Guai a smarrire il "senso" della storia; guai a concepirla come un insieme di fatti privo di direzione e di orientamento, guai, ancor più, a pensare che i fatti non abbiano una consistenza in sé, una corposa, "positivistica" densità, che li distingue da ciò che è "soltanto una nostra costruzione mentale". Dunque, "dire la verità nella storia" significa innanzitutto distinguere tra "i fatti accertati e le finzioni". È Roma che ha sconfitto Cartagine nelle guerre puniche, "e non viceversa"; ed è da questa imprescindibile operazione di verifica di realtà che ogni storia deve partire.
Si innesta qui una durissima polemica nei confronti del "relativismo", di quell'approccio cioè che nega "che la realtà oggettiva sia accessibile", e che considera il passato che studiamo come il semplice frutto di una "nostra costruzio-ne mentale". Naturalmente, Hobsbawm non pensa affatto a un positivismo rozzo: sa bene che i "fatti" includono anche "ciò che la gente pensa su di essi"; così come sa bene che il fulcro di ogni operazione storica sta nel modo con cui poi i fatti accertati vengono "raggruppati" e "interpretati". Ma resta in lui incrollabile la certezza del fatto, come base imprescindibile dell'operazione storica. Del resto, si mettano pure tranquilli, i relativisti. Il loro approccio "non avrà più importanza nella storia di quanta ne abbia nelle aule di giustizia. Se l'accusato in un processo per omicidio sia o non sia colpevole dipende dalla valutazione dei fatti accertati secondo l'antiquato stile positivistico". E qui arriva l'affondo, nel più puro stile della scherma hobsbawmiana: "Un imputato innocente farà bene a ricorrere a questa linea positivistica di difesa. Sono i difensori dei colpevoli che scelgono linee di difesa postmoderne".
Si potrebbe naturalmente obiettare che scopo della storia non è quello di distribuire condanne o assoluzioni. E che lo spessore "positivistico" del fatto è di gran lunga sovrastato dall'ampiezza delle oscillazioni interpretative che su di esso si possono addensare, dallo stesso criterio della sua selezionabilità, della sua "rilevanza" ai fini della costruzione del discorso storico che si sta conducendo. Tutte cose che Hobsbawm sa bene, e di cui tiene perfettamente conto nella sua concreta pratica di storico. Qui sembra però prevalere nel nostro autore una sorta di rigidezza teorica, un bisogno di sbarramento preliminare, che sotto l'aspetto di una infastidita ripetizione di concetti tanto fondamentali da dover essere ovvi, cela in realtà la sensazione di non potersi concedere alcun cedimento. Se si rompono le barriere dell'univocità, sembra pensare Hobsbawm, se l'ancoraggio ai fatti si sdilinquisce in una sorta di ragnatela intrepretativa, è la storia stessa a saltare su una mina, a perdere la sua identità e dignità di disciplina in grado di spiegare la "direzione" del mutamento.
Ed è quest'ultimo punto quello effettivamente decisivo.La storia infatti, per Hobsbawm, ha inequivocabilmente una "direzione": sono "la crescente emancipazione dell'uomo dalla natura e la sua sempre maggiore capacità di controllarla" a rendere la storia "nel suo complesso, orientata e irreversibile". E, dato che "il processo e il progresso del controllo dell'uomo sulla natura implicano mutamenti che non investono semplicemente le forze produttive, ma pure i rapporti sociali di produzione, ciò implica anche una determinata successione dei sistemi socioeconomici". Dato questo ""orientamento" dello sviluppo storico, le contraddizioni interne ai sistemi socioeconomici forniscono il meccanismo per il mutamento che diventa sviluppo".
Il mutamento che diventa sviluppo: eccola l" l'irrinunciabile lezione del materialismo storico; ecco perché lo storico Hobsbawm non può e non vuole rinunciare a dirsi marxista.La storia è infatti, per lui, un processo che contiene insieme, simultaneamente, "elementi stabilizzanti e distruttivi" di ogni singola formazione sociale. Ma è il fatto che questi elementi siano "orientati", a garantire che il processo non si avviti in una serie infinita di "fluttuazioni cicliche", entro un meccanismo continuo di "destabilizzazione e ristabilizzazione" ("Che cosa devono gli storici a Karl Marx", 1968). Naturalmente, ciò non vuol dire affatto che la storia sia "predeterminata", ma soltanto che gli elementi distruttivi posti all'interno di un definito modo di produzione implicano "la potenzialità della trasformazione", non la sua "certezza". D'altro canto, la trasformazione non è mai puramente interna a una società data, ma tiene sempre conto di influssi esterni derivanti da altri contesti, cosicché, quando avviene, non è mai pura, ma risulta da una miscela storica, dalla "congiunzione" e interazione di società diversamente strutturate ("Marx e la storia", 1983).
Ecco - sia detto per inciso - il motivo per cui, secondo Hobsbawm, gli storici si trovano molto meglio con i modelli concettuali che risalgono a Marx e all'economia politica classica, che non con gli schemi di derivazione neoclassica: giacché si tratta ogni volta per loro non di verificare una teoria generale, ma di "formulare teorie applicabili a casi particolari". Nel caso specifico della pratica storiografica di Hobsbawm, una volta scelto come campo di applicazione quello delle società capitalistiche e di mercato, si è trattato e si tratta di vedere come di volta in volta si sono date delle forme "combinate" di economia e di società, che hanno disposto diversamente i loro elementi interni (stabilizzanti o distruttivi che fossero) e gli elementi assunti da modi di produzione esterni e diversi. In effetti, e proprio per questi motivi, il senso della trasformazione non assume una direzione "lineare". È l'"onnipresente combinazione" di elementi diversi che interessa lo storico, la specificità dei singoli casi e contesti, entro cui si manifesta il generale corso del mutamento. Ma un generale corso, benché tortuoso e frammentario, esiste: è questa la certezza "moderna" di Hobsbawm, incrollabile di fronte a ogni possibile attacco disgregatore.
È assai significativo, da questo punto di vista, che nel sintetizzare i mutamenti della storiografia novecentesca rispetto al modello ottocentesco riassunto nella grande lezione di Leopold Ranke, Hobsbawm citi quattro punti, desunti da un saggio di Arnaldo Momigliano. E mentre sui primi tre (brusco declino della storia politica e religiosa; scarso ricorso alle "idee" per spiegare la "storia"; prevalere delle spiegazioni "in termini di forze sociali") si dichiara in perfetto accordo, l'ultimo punto di Momigliano viene relegato da Hobsbawm a un'osservazione di tipo strettamente congiunturale, connessa a certe tendenze specifiche degli anni cinquanta.
Ma l'ultimo punto di Momigliano è un punto di ben più radicale segnalazione critica. Vale la pena di riportarlo, così come lo stesso Hobsbawm lo cita: "È diventato difficile - scriveva Momigliano nel 1954 - parlare di progresso o anche soltanto di uno sviluppo degli eventi che sia dotato di senso e si indirizzi in una determinata direzione". Osservazione che, commentava Hobsbawm nel 1968, forse è applicabile agli anni cinquanta; assai meno "ai decenni precedenti o successivi" ("Che cosa devono gli storici a Karl Marx", 1968). Non è necessario spendere grandi discorsi per sottolineare quanto la nostra sensibilità di questo momento si ritrovi assai meglio rappresentata dal quarto punto di Momigliano, piuttosto che dal riduttivismo con cui lo aveva accolto Hobsbawm negli entusiasmi di un anno come il 1968. Ma si sbaglierebbe a legare quell'osservazione di Hobsbawm a un passaggio a sua volta troppo contingente.
Il fatto è che il "positivista" Hobsbawm, il "marxista" Hobsbawm, per quanto fine e smaliziata sia la sua pratica intellettuale, per quanto abile e rigorosa, per quanto carica di tutte le sottili lezioni di accortezza e distinzione che gli vengono dall'essere al centro della riflessione intellettuale di questa fine secolo, non sa e non vuole rinunciare all'idea di un "mutamento orientato nelle vicende umane" che è ai suoi occhi "osservabile e obiettivo", e che prescinde a suo dire "dai nostri desideri e giudizi di valore". Tanto da aggiungere, con una consapevole enfasi e con il gusto della sfida: "Personalmente non ho remore a chiamare questa crescita progresso, sia nel senso letterale di un processo che avanza in una direzione, sia perché pochi di noi non lo giudicherebbero un miglioramento".
Vi è sicuramente, dalla parte di Hobsbawm, più che la forza, la simpatia dell'argomentazione. Di fronte ai facili abbandoni nelle spire della "perdita di senso", il cuore di chi ama il mestiere dello storico si sente irresistibilmente attratto dalla parte di Hobsbawm.
Pure, non si può fare a meno di notare la consistenza delle lacerazioni che la storia - quella dei fatti - si è incaricata di produrre nel suo schema. È la capacità da parte degli uomini di trasformare indefinitivamente la natura, plasmandola ai propri fini, che sembra essere revocata in dubbio dagli esiti attuali; è la corrispondenza tra sviluppo delle forze produttive ed evoluzione dei rapporti sociali che sembra entrare in una crisi profonda.
Vale forse la pena di dirlo: la critica del capitalismo, dei suoi modi produttivi e sociali, sembra un esercizio più che mai utile e necessario; e a essa vale più che nel passato la pena di riservare largo spazio nel lavoro storico. Ma simile critica non sembra più conducibile dal punto di vista del paradigma della "espansione delle forze produttive". È l'idea stessa di sviluppo - più ancora che quella di progresso - a uscire assai provata dagli esiti recenti della storia mondiale. E non perché lo sviluppo economico si sia fermato. Esso continua al contrario a essere l'unico obiettivo organico perseguito dalle società capitalistiche. È la "desiderabilità sociale" dello sviluppo a tutti i costi che è entrata in crisi nella coscienza di noi contemporanei, assediata com'è dai mille dubbi circa i prezzi da pagare. Ed è sempre più difficile pensare che basti adeguare le forme dell'organizzazione sociale ai nuovi esasperati livelli della tecnologia e della produzione per ottenere l'effetto di un ristabilimento.
In ciò, la sconfitta del comunismo sovietico, con i suoi drammatici carichi di valenze simboliche, ha pesato assai più di quanto Hobsbawm sia disposto ad ammettere. Non è solo la fine di un'esperienza storica che aveva preteso di presentarsi come antagonista. È la fine di una modalità d'analisi dello sviluppo capitalistico e dei suoi possibili punti critici. Un'alternativa al capitalismo, se c'è, va d'ora in avanti pensata non in continuità evolutiva con quel sistema, ma forse attraverso più radicali cambiamenti di modello e di orientamento. E qui necessariamente la ricerca si frantuma, si spezzetta, si diffonde in mille rivoli, chissà quanti dei quali destinati a rinsecchirsi e impantanarsi, prima che qualcuno di essi trovi un qualche esito. Questa, e non altra, è forse la sfida del "postmoderno" che la storia non può eludere, che deve saper accettare.
Né per questo c'è alcun bisogno di disperare. Con le parole di Hobsbawm, "nulla come la sconfitta aguzza l'ingegno dello storico" ("Il presente come storia", 1993).

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Eric J. Hobsbawm

1917, Alessandria d'Egitto

Nato da una famiglia ebraica di origine austriaca - il nome del padre era Leopold Percy Obstbaum -, dopo la perdita dei genitori negli anni ’30 si trasferì in Gran Bretagna dove rimase affermandosi come storico di primissimo piano, sempre fedele alla sua impostazione marxista.  Dopo aver studiato a Vienna, Berlino, Londra e Cambridge, insegnò al Birkbeck College dell'Università di Londra e alla New School for Social Research di New York.Tra i suoi libri più significativi Il secolo breve (Rizzoli 1995), Ribelli. Forme primitive di rivolta sociale e la quadrilogia: L’eta della rivoluzione, Il trionfo della borghesia, L’età degli imperi, L’età degli estremi. Importanti anche l’autobiografia Anni Interessanti (Rizzoli...

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