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L'opera stupì non poco il pubblico, trattandosi di opera prima e già comunque di notevole livello, per quanto a mio parere, inferiore a successivi romanzi. Per esempio, se già si intravvede la capacità di analisi che è propria della Némirovsky, lo stile non è così fluido come nelle produzioni che seguiranno e anche la costruzione, per quanto robusta, non è ancora così equilibrata come quella a cui ci ha abituato. Resta però il fatto che in un'epoca in cui la finanza, l'alta finanza, prosperava allegramente, anche se il 1929, con la grande crisi, è ormai prossimo, la scrittrice ucraina smonta certi falsi miti, fornendoci un quadro impietoso del mondo degli affari, fatto da rapaci senza cuore e che maturano sempre di più la convinzione che con il denaro si possa comprare tutto, anche l'amore. La figura di questo satrapo ebreo, il cui nome é un vaticinio, riluce di triste squallore, anche se tuttavia alla fine - una conclusione edificante che era forse d'obbligo, trattandosi del primo romanzo - l'uomo si riscatta, e non per interesse, ma per affetto. Forse non é un caso che il protagonista sia ebreo, visto che il padre della Némirovsky era un celebre banchiere israelita, e poi, senza voler cercare una casistica, di imprenditori ebrei nell'alta finanza ce ne sono sempre stati tanti. Comunque, ebrei o cristiani, agnostici o atei, questi capitalisti del denaro si somigliano tutti e Irène Némirovsky sembra volerci suggerire che dove questi Re Mida posano le loro mani la vita si svilisce, il denaro e solo il denaro diventa lo scopo dell'esistenza e l'inaridimento é crescente, tanto che lo splendore esterno non riesce più a camuffare il vuoto che si portano dentro. Da leggere, senz'altro.
Una grandissima delusione. Ho comprato il libro perché edito da Adelphi, casa editrice che normalmente è garanzia di grande qualità. Avevo anche notato che in libreria erano disponibili numerosi romanzi della Nemirovsky e quindi mi son detto: "Partiamo da questo e poi seguiremo il filone!". Ho approfondito su internet la vita dell'autrice e scoperto che David Golder era in effetti il romanzo di esordio; poi mi sono immerso nella lettura. Come dicevo in incipit, la delusione è stata cocente: personaggi stereotipati, immedesimazione impossibile, trama prevedibile e banale. Se qualcosa di buono c'è, è la descrizione della malattia di Golder, abbastanza verosimile. Per il resto, mi aspetto a questo punto di trovare anche Sveva Casati Modigliani edita da Adelphi, ho letto per sbaglio un suo romanzo ("Cascata di diamanti") che è simile - ma nettamente meglio scritto - al David Golder. Per me il rapporto con la Nemirovsky si chiude qui.
Un libro scritto in modo ineccepebile...scorrevole e profondo...il mio voto è però un 3 e 1/2 perchè non mi ha suscitato curiosità o voglia di leggerlo in fretta! Un libro che fa riflettere si...ma forse un pò povero di colpi di scena e sempre sullo stesso tono!
Recensioni
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Dell'aridità dei nuovi ricchi, di odi familiari, di una perfida vendetta adolescenziale, e poi degli effetti sconvolgenti dell'occupazione tedesca, scrive la figlia di un banchiere ebreo, elegante e colta signora russa rifugiata a Parigi. "Mio Dio! Che mi fa questo paese?", chiede Irène Némirovsky nel giugno 1941, un anno prima di essere internata in un campo nazista e di morire ad Auschwitz. La Francia, che non l'ha salvata, le sta concedendo un riconoscimento tardivo: il premio Renaudot sancisce nel 2004 il successo anche internazionale dell'incompiuto Suite française, tradotto da Adelphi, che ha recuperato a ritroso il secondo romanzo, Le bal (1930), e ora il primo, David Golder.
Nel 1929 Irène ha ventisei anni, ma la storia della caduta rovinosa, con impresa epica finale, di uno squalo ebreo dell'alta finanza personaggio tra Balzac e Simenon è una crudele presa d'atto, con rancore e dolorosa stanchezza, della vecchiaia. Il "vecchio Golder" ha sessantotto anni: grasso, flaccido, il volto cereo illividito dalle occhiaie. Sgomento, confronta l'immagine decrepita di sé che lo specchio impietoso gli rimanda reminiscenza del prediletto A Rebours di Huysmans con quella lontana del ragazzo smilzo emigrato da Mosca e diventato ricchissimo dopo una vita di stenti e di lotte. Specula in borsa, per accumulare denaro ma anche per l'eccitazione del gioco che lo inchioda tutta la notte al casinò, occhi fissi sulle carte e mani frementi. La vecchiaia accentua i caratteri somatici: il naso adunco lo fa somigliare a un usuraio o a un rigattiere. La moglie Gloria, grottesca per la maschera di rughe e trucco, lo insulta: "Sì, sei rimasto l'ebreuccio che vendeva stracci e ferraglia a New York con il fagotto in spalla".
Malgrado l'assicurazione dell'autrice che Golder personifichi non gli israeliti francesi ma quegli esiliati cosmopoliti ossessionati dalla volontà di far fortuna, ha disturbato lo stereotipo antisemita secondo i pregiudizi dell'epoca dell'ebreo dalla mano molle, le unghie ad artiglio, il naso aquilino, gli occhi vicini neri e liquidi, il colorito olivastro, i denti irregolari, i capelli crespi, il corpo misero. Non sfugge a questo ritratto il diciottenne, emigrante con la speranza di un destino migliore, incontrato in viaggio dal "vecchio Golder", che si riflette con rimpianto nella sua forza nervosa: "Anche lui era stato giovane, di quella giovinezza avida ed esuberante della sua razza". È proprio la giovanile bellezza e la grazia allegra della figlia, la capricciosa e sensuale Joyce, a intenerirlo e persino sedurlo: l'unica che gli strappa un sorriso stentato, gli suscita un raro, indefinibile ambiguo piacere, lo fa piangere di umiliazione. Alla prima apparizione la ragazza indossa un abito di tulle rosa scollato, al collo un filo di perle. Le perle sono motivo ricorrente, segno di successo, da custodire in cassaforte o da esibire: Gloria le riscalda tra le dita come un calice di vino, le gira nervosamente, le tormenta; Golder ne soppesa il prezzo se grosse quanto noci, e in una lite con la moglie scuote e torce con furia la pesante collana, e le perle viscide simili a serpi aggrovigliate si animano. Joyce ci giocherella e le accarezza con un dolce movimento del collo; nuda, non rinuncia al loro chiarore sulla pelle. Sostituisce le perle regalatele dal padre con smeraldi trasparenti quando si vende per soldi a un "vecchio porco".
In apertura, lo studio parigino arredato in pesante stile impero introduce nella società chiassosa di parvenus che negli anni venti sverna a Biarritz in ville prestigiose (un buon investimento), tra feste mondane (che Irène ben conosceva), frequentate da nobili fasulli, gigolo sgualciti e prestanti mantenuti. La malattia fa inceppare la macchina da soldi ("Sì, sì, pagare, pagare e ancora pagare
È per questo che sono al mondo"), stimola con la minaccia terrorizzante di morte il corpo goffo, torpido da anni, di Golder e sollecita la sua capacità smarrita di sognare e ricordare. All'inizio, un no deciso, ripetuto più volte con tono perentorio, quasi con ferocia, lo annuncia: rifiuta un affare al socio e ne osserva indifferente la disperazione. Il suo suicidio lo incollerisce ("idiota
perché l'hai fatto"), lo disgusta ("ammazzarsi come una sartina"). Rovinato a sua volta, Golder azzarda un'avventura estrema, per noia, per sfida, per il vizio del gioco, per la figlia che forse non è la sua. Il ritorno in Russia lo fa regredire ai vicoli oscuri, alla misera bottega dell'infanzia, all'yiddish che di colpo sale alle labbra.
Una scrittura essenziale e incisiva, il ritmo rapido, il ricorso al discorso diretto libero (è un caso che la ragazza si chiami Joyce?) con l'uso intensivo di frasi nominali, segmenti brevi, puntini di sospensione, contribuiscono a una resa immediata del pensiero dissimulato di protagonisti spietati, tutti votati al culto del dio denaro, freddi come le perle, eppure soli e spaventati: un romanzo di esordio sorprendente.
Anna Maria Scaiola
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