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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2017
Anno edizione: 2017
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Di tutti i romanzi partoriti dalla mente e dalla penna della meravigliosa e ironica Suad Amiry, Damasco è sicuramente il mio preferito. L'ennesima prova del suo grande talento come narratrice (lei stessa si definisce "hawakati" in arabo, ovvero "cantastorie"). La scrittrice palestinese in questo libro parla della storia della sua famiglia materna, di sua nonna, di sua madre, delle sue zie che, da nubili, hanno adottato una bambina e l'hanno cresciuta come una coppia omogenitoriale. Da non crederci che una storia come questa sia letteralmente accaduta più di mezzo secolo fa. Nessuna parola in merito alla tragedia del conflitto civile siriano o palestinese: la storia di Damasco è quella delle maestose case damascene, delle famiglie che le hanno abitavate nel corso dei decenni e delle loro sontuose tavolate settimanali. Una profumata meraviglia.
"Il pensiero delle nostre visite quotidiane alla gelateria Bakdash nel suk al-Hamidiyah mi fece venire l'acquolina in bocca al ricordo del sapore stuzzicante del lentisco arabo pestato a mano e del gelato al pistacchio. In compagnia di zia Karimeh, la mezza dozzina di nipoti e nipotine andavano in delirio solo a guardare i gelati di diversi colori, incerti su quale scegliere." Questo per me è stato uno di quei libri in cui tuffarsi con abbandono, da cui si fatica a staccarsi perché la curiosità di sapere come continua, da cui tornare con gioia appena possibile... chiudendo l'ultima pagina quasi con un senso di perdita. Il principale elemento di fascinazione è stato poter sbirciare nelle abitudini e nel vissuto quotidiano di una parte di mondo di cui so molto poco. Ho cominciato a leggere la storia di Teta e Jiddo, pensando "però, che nomi strani!", per scoprire tante pagine dopo che erano, semplicemente, nonna e nonno. Mi é quasi venuta fame con le meravigliose descrizioni dei cibi preparati per la Grande Bouffe del venerdì, mi sono sentita un po' frastornata dopo l'energia strigliata dell'hammam, mi è venuta voglia di fare la siesta su un comodo diwan...
Suad Amiry ci racconta la storia di una famiglia attraverso gli anni nella splendida Damasco. Il racconto è leggero e incalzate e lascia sospesi in quell’aria magica del Medio Oriente non ancora segnato da conflitti.
Recensioni
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Suad Amiry, per chi non la conoscesse, esordisce come scrittrice nel 2003, con Sharon e mia suocera, un libro nato dalla corrispondenza e-mail che intratteneva con i suoi amici, durante quell’esperienza che lei ama definire della “doppia occupazione”, ossia durante l’assedio israeliano del 2003 a Ramallah, che ha vissuto personalmente nel suo appartamento, e quello di sua suocera la quale, vivendo nella sua stessa casa durante l’occupazione israeliana della città per 42 lunghissimi giorni, l’ha assediata a sua volta! (…) Suad Amiry si è fatta attendere un po’, pubblicando nel frattempo altri libri di successo e poi, nel 2016, ha dato alle stampe Damasco.
Damasco non è soltanto un romanzo. Quasi mai i romanzi sono soltanto romanzi.
Damasco è una grande storia famigliare, certo. Ma è anche l’affresco complesso di una società ricchissima di culture che oggi è difficilissimo intravedere sotto le macerie di una guerra che non smette e che non permette di sentire la potenza evocatrice di questa città e di quel Paese che una volta era la Grande Siria.
Essendo Suad Amiry un’architetta, prima ancora di essere una scrittrice, non stupisce che il romanzo Damasco si apra, quasi come se si aprisse una porta, sulla corte di una casa damascena. Si tratta di una fotografia, datata tra il 1898 e il 1914, che ci dà una prima idea di come dovesse essere la vita delle famiglie dei ricchi mercanti siriani dell’epoca. Un ricco mercante damasceno era il nonno della Amiry, Jiddo. Nel 1896, a trentaquattro anni, sposa la quattordicenne e silenziosa Teta, sua nonna, e la porta via dal suo paesino natale in Palestina, ‘Arrabeh, fino alla dimora Baroudi, il suo Palazzo, proprio nel centro della “elegante e fastosa Damasco”.
Il romanzo sin dalle prime battute ci mette a disposizione tutti i codici che ci serviranno per interpretare quest’altro mondo: il mondo arabo sotto l’Impero ottomano, l’Oriente, i suk con la loro frenesia commerciale, le dolcissime delizie e gli eccessi. Un mondo che non conosce sobrietà, dove tutto è monumentale, colorato, fastoso, numeroso e chiassoso. Un mondo dove le donne si sposano da ragazzine, dove si seguono rigorosamente costumi e tradizioni locali, come quella che prevede che “una donna maritata [possa] fare visita alla propria famiglia solo dopo aver dato al marito- o più precisamente ai suoceri- un figlio maschio”. Un mondo che considera il malocchio una cosa seria e, perciò, se quel primogenito maschio, Ahmad, muore è colpa della madre che “avrebbe dovuto mettergli al collo una pietra azzurra e degli amuleti per proteggerlo”. Un mondo dove i genitori portano il lutto “vestiti di nero dalla testa ai piedi, [ascoltando] in religioso silenzio lo sceicco che [recita] il Corano e […] [portando] per il resto dei loro giorni il nome [di Ahmad], chiamandosi rispettivamente Umm Ahmad e Abu Ahmad”, la madre e il padre di Ahmad. (…)
Ecco una tipica famiglia araba, penseremo subito! Numerosissima, come non solo all’epoca esistevano, ma ancora oggi. E ci saremo già dimenticati tutti questi nomi e queste date e ci sembrerà di sentire solo il chiasso e la confusione di tanta gente, tutta stipata nella stessa casa, come quando li ritroviamo riuniti, a metà libro, intorno alla stessa tavolata di prelibatezze, durante la cosiddetta Grande Bouffe, ossia “i raduni [settimanali della famiglia] per il pranzo del venerdì [che] erano eterni, come Jiddo, vissuto fino quasi a cent’anni”.
La Amiry non fa convenevoli e, durante tutto il lungo raccontare, ci sciorina letteralmente i fatti più intimi della sua famiglia: gli adulteri (eh sì! Tutta la storia inizia con un adulterio…), i segreti, le scaramucce e i vizi, come la dipendenza dall’alcol dello “zio Successo” (…).
Insomma la Amiry fa entrare in maniera irruente nella storia, sin dalle primissime pagine, tutti i membri della sua famiglia, il loro modo di essere e il loro destino, ma allo stesso tempo accompagna il lettore piano piano lungo questa città che evoca ancora oggi, nonostante le macerie, meravigliosi sogni da Le Mille e una Notte. (…)
Ma certamente mi sembra che la Amiry faccia di più, una cosa davvero molto importante per lei, come palestinese, e per noi lettori, scrivendo questo libro: ci fa compiere un viaggio non tanto e non solo sulle tracce della sua famiglia per tre generazioni, ma un viaggio della memoria che consente a lei di riflettere sulla propria stessa esistenza e a noi di riflettere sulle trasformazioni della Siria e della Palestina, due Paesi le cui storie e vicissitudini ci riguardano tutti e molto più di quanto immaginiamo.
L’urgenza di libri come questo sta nella loro capacità di riattivare nel mondo occidentale una memoria leale che renda giustizia alle “piccole storie”. Questi libri si propongono un’impresa non sempre facile, ossia “decostruire il deposito di millenni” e giungere ad una narrazione dall’interno, ovvero attraverso gli occhi e le voci dei protagonisti stessi di quel mondo dimenticato o mai veramente conosciuto.
Recensione di Antonia Frascione
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