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Dalla stiva di una nave blasfema, il cui bellissimo titolo è tratto da uno dei diari di Gombrowicz, scrittore elettivamente amato da Permunian, sintetizza nel modo migliore l'animus che innerva il libro: una visceralità che vuole colpire ogni conformismo nella vita quotidiana come nel mondo letterario. E molti sono i colpi messi a segno. Si tratta di un diario di bordo umorale senza una precisa linea narrativa che non sia quella, profonda, della sofferenza e dell'insofferenza dell'autore di fronte al mondo e agli umani (odierni) così come sono. Non a caso il libro termina con l'esplicita confessione: "Perché è proprio così che io mi auguro di aver composto queste note: con il sangue della vita e con le unghie dei miei incubi!".
Permunian, che nel suo desiderio di mettersi a nudo ricorda Moresco, richiama forse anche meglio il personaggio interpretato da Eastwood in Gran Torino: non resiste di fronte allo sciocchezzaio e alla volgarità imperanti, e se il vecchio Clint si limita a grugniti di disapprovazione, lui esplode in invettive e si abbandona al racconto di qualsiasi episodio lo abbia ferito o indignato, senza particolare selezione. Tutto è scritto con grande incisività e si fa leggere con partecipazione: Permunian è molto bravo nel mettere in moto il meccanismo di identificazione tra lettore a autore. Se sovente la narrazione è concreta e fattuale, non mancano rarefatte accensioni (paesaggi, incubi notturni), che fanno da spia a una peraltro tenuta sotto controllo propensione lirica (Permunian non a caso è autore anche di una raccolta di poesie, Il teatro della neve, pubblicata nel 2006).
Questo ipocondriaco diario di un'anima si snoda tra due scenari: quello attuale, di una miasmatica e turisticamente insoffribile Venezia, e quello passato, connesso a una memoria che si fa sempre più evanescente, del Polesine dei primi anni cinquanta (il tempo dell'alluvione e dell'esodo). Bellissime fotografie in bianco e nero accompagnano il testo ricordandoci, e credo soprattutto ricordando all'autore, quel mondo che fu: grandi spazi, silenzi, case sugli argini, interni di osterie, insegne, ruderi. Un mondo in micidiale contrasto con la Venezia rutilante del moto perpetuo e della chiacchiera di massa. Accanto a Venezia, si aprono squarci sul Veneto di oggi (di sempre, forse), che appare come una grande provincia divisa tra squallide trasgressioni e un opaco e ipocrita cattolicesimo: ed è proprio da questo sottofondo che emerge il conclamato ateismo dell'autore (o, meglio, la sua blasfemia). Il theatrum mundi di Permunian è ricchissimo di personaggi: da quelli noti come il filosofo sindaco di Venezia a quelli della quotidianità che circonda ciascuno di noi. Compaiono così abbronzate sessantenni che si confidano le loro avventure, oncologi che si travestono da barboni per frequentare la mensa della Caritas, il dilapidatore con giovani marchettari conte Malvarosa, Don Gastone e la sua giovane amante extracomunitaria, il cugino farfallone Armando, il letterato di virtù sconosciuta Pompilio, le vecchie fiamme Betty e Rosaspina (evocatrici di un sano e carnale erotismo), la vivace madre nella casa di riposo
Ma in Permunian resta sempre aperta la ferita primaria, quella di essere un abusivo della vita: quel suo essere stato salvato in extremis, su un argine del Polesine sommerso dalle acque, dalla benedizione di un pastore (naturalmente, nel racconto familiare). Ed anche un perenne esule, come fa fede la sua origine armena per parte paterna.
Mario Marchetti
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