Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa». Oltre la crisi del movimento operaio europeo - Alain Bihr - copertina
Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa». Oltre la crisi del movimento operaio europeo - Alain Bihr - copertina
Dati e Statistiche
Wishlist Salvato in 1 lista dei desideri
Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa». Oltre la crisi del movimento operaio europeo
Disponibile in 5 giorni lavorativi
14,72 €
-5% 15,50 €
14,72 € 15,50 € -5%
Disp. in 5 gg lavorativi
Chiudi
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
14,72 € Spedizione gratuita
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Libreria Dedalus
15,50 € + 4,50 € Spedizione
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Lallystore
17,05 € + 3,99 € Spedizione
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Libreria Bortoloso
15,50 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 3 giorni lavorativi disponibile in 3 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Emozioni Media Store
16,12 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 3 giorni lavorativi disponibile in 3 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Multiservices
15,50 € + 5,50 € Spedizione
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
14,72 € Spedizione gratuita
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Libreria Dedalus
15,50 € + 4,50 € Spedizione
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Lallystore
17,05 € + 3,99 € Spedizione
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Libreria Bortoloso
15,50 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 3 giorni lavorativi disponibile in 3 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Emozioni Media Store
16,12 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 3 giorni lavorativi disponibile in 3 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Multiservices
15,50 € + 5,50 € Spedizione
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
Chiudi

Tutti i formati ed edizioni

Chiudi
Dall'«assalto al cielo» all'«alternativa». Oltre la crisi del movimento operaio europeo - Alain Bihr - copertina

Dettagli

2
1998
1 febbraio 1998
248 p.
9788886389426

Voce della critica


recensione di Bellofiore, R., L'Indice 1996, n. 5

Il libro di Alain Bihr è un libro importante. L'importanza del volume può essere misurata dal fatto che le tesi di Bihr sono divenute in Italia il senso comune della sinistra non conciliata con l'ordine esistente delle cose - a testimoniarlo, proprio nei giorni in cui scrivo, una accesa discussione in corso sul "manifesto" a partire da una recensione di Marco Revelli al volume dell'autore francese. Semmai, proprio la diffusione dell'analisi di Bihr potrebbe far sospettare che i quattro anni passati dall'edizione francese a quella italiana rendano l'operazione tardiva e il libro obsoleto. Così non è: non soltanto perché "Du Grand Soir à l'alternative" esprime, in modo per così dire classico e compiuto, una diagnosi della crisi del movimento operaio di grande attualità, ma anche perché l'argomentazione di Bihr mantiene caratteri di superiore originalità, e anche di maggiore spessore, rispetto alla volgarizzazione delle sue tesi corrente dalle nostre parti.
Vale la pena, allora, di partire proprio dagli elementi che il discorso di Bihr - ma, più in generale, di tutta una serie di autori francesi, da Gorz ad Aznar, da Lipietz a Latouche, rispetto ai quali la specificità di Bihr consiste in un più accentuato radicalismo - ha in comune con il dibattito italiano degli ultimi due anni. Il riferimento migliore è al libro di Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, "Appuntamenti di fine secolo", in particolare al saggio introduttivo dei due autori e al contributo di Marco Revelli. Se si esclude il più marcato accento autogestionario di Bihr, l'ipotesi interpretativa è infatti in gran parte la medesima. La si può sintetizzare in cinque punti.
Primo: negli ultimi vent'anni è entrato in crisi il modo di regolazione fordista fondato sulla separazione tra concezione ed esecuzione del lavoro (Taylor), sulla meccanizzazione rigida del processo di lavoro (Ford), e su uno Stato garante di quel compromesso, che Bihr chiama "socialdemocratico", tra capitale e lavoro, incentrato sullo scambio tra sicurezza sociale (contrattazione collettiva, salario indiretto, welfare state) e integrazione del movimento operaio (Keynes). È questo, sostiene Bihr, il frutto avvelenato, ma certo non privo di vantaggi materiali per i lavoratori, di quel vero e proprio "feticismo dello Stato" che ha parimenti caratterizzato in questo secolo tanto la tradizione riformista quanto quella leninista.
Secondo: dalla crisi degli anni settanta il capitale esce attraverso un processo di modificazione, o incontrollabile "transnazionalizzazione" nella terminologia di Bihr, che investe mercati, produzione, capitali e che segna la fine dell'autonomia delle politiche economiche nazionali, perno del modello keynesiano.
Terzo: la via d'uscita capitalistica dalla crisi, che ambisce a sostituire la flessibilità alla rigidità del vecchio paradigma e il mercato mondiale alla domanda nazionale proveniente dal salario diretto e indiretto, comporta una riduzione necessaria e progressiva del tempo di lavoro vivo, che lo sviluppo tecnologico rende ineluttabile per gli autori italiani come per Bihr, e che produce una situazione di disoccupazione strutturale di massa.
Quarto: l'attuale spinta competitiva alla crescita della produttività si traduce in una modificazione radicale dei metodi di organizzazione del lavoro perché comporta, in vece dell'operaio inerte, un coinvolgimento subalterno dei lavoratori inseriti organicamente nell'impresa -, un "nuovo ordine produttivo" lo chiama Bihr, che grazie al cielo ci risparmia un uso indiscriminao e inqualificato del termine "postfordismo", divenuto da noi una parola che sostituisce invece che sintetizzare un'analisi seria delle modificazioni strutturali in corso.
Quinto: la crisi del modello fordista è anche crisi del rapporto con la natura, emergere di limiti alla produzione che si pensava sganciata da qualsiasi costrizione quantitativa - ma anche, aggiunge Bihr, crisi culturale e crisi della socialità.
Sin qui le somiglianze. Non meno importanti, però, le differenze tra Bihr e i suoi epigoni italiani. Nella sua analisi dell'ascesa e del declino del compromesso socialdemocratico Bihr riprende del tutto esplicitamente le conclusioni della cosiddetta "scuola della regolazione" (Aglietta, Boyer, Lipietz). Se ne distanzia però, e a ragione, nella sua analisi della crisi del fordismo. Ha cioè chiaro che in quella interpretazione, che gli autori italiani riprendono tale e quale, è presente una "relativa sottovalutazione della lotta di classe".
Se non è accettabile la tesi di Bihr secondo cui il fordismo nascerebbe da un compromesso tra borghesia e proletariato, trattandosi piuttosto della sanzione di rapporti di forza interni e internazionali che dopo la grande crisi e la guerra mondiale costringevano il movimento operaio occidentale sulla difensiva per un paio di decenni, è viceversa senz'altro vero che il suo esaurimento deriva dalle lotte nella produzione, dal conflitto industriale, che proprio l'era aurea del keynesismo, riducendo stabilmente la disoccupazione, rendeva possibili. Cioè da quella "rivolta contro lo sfruttamento del lavoro" che precede l'aumento del prezzo delle materie prime ed è ben più profonda della saturazione del consumo di massa a cui di norma viene attribuita la fine del fordismo.
Di qui, altre differenze: pur avendo ben chiari i rischi per l'equilibrio ambientale che le vecchie come le nuove forme del capitalismo portano con sé e pur sottolineando l'urgenza di intervenire, Bihr si tiene alla larga da ogni catastrofismo ecologico: "Poiché un riformismo ecologico è infatti possibile. Si può benissimo infatti ipotizzare che i movimenti sociali e/o gli stati impongano agli industriali e alle amministrazioni norme e controlli vincolanti in materia d'occupazione dei siti e di sfruttamento delle ricchezze naturali; che favoriscano modi di produzione e di consumo non soltanto più ecologici, ma anche capaci di aprire nuove vie all'accumulazione del capitale". È questo soltanto un esempio del tono anticatastrofico di tutto il discorso di Bihr, della sua saggia ritrosia a dare carattere apocalittico alla propria riflessione e a intravedere a ogni piè sospinto rotture radicali della temporalità storica, senza che ciò nulla tolga alla lucida percezione della difficoltà delle sfide: quando invece i suoi seguaci italiani inclinano a una discutibile nostalgia della "crisi finale" del capitalismo, magari nella versione "socialismo o barbarie".
Un ulteriore esempio di analisi con i piedi per terra, attenta alle contraddizioni e lontana dai cortocircuiti, è quella relativa alle tendenze al superamento della fabbrica fordista. Bihr coglie bene il rapporto tra nuove forme dell'automazione (la gestione informatica dei flussi produttivi) e nuovi modi di organizzare il lavoro (il cosiddetto toyotismo), il processo di disgregazione della forza-lavoro che fa da contrasto alla relativa maggiore omogeneità dell'operaio- massa, la precarietà e la subordinazione del lavoro che ne risultano. Evita però di dedurne tendenze univoche, e sottolinea invece il permanere di "una molteplice gamma di possibilità alternative e contraddittorie". Il progresso tecnologico e organizzativo è finalizzato "verso un medesimo effetto globale: la frammentazione del proletariato", è cioè la risposta all'antagonismo in cui si era incagliato il fordismo. Sa però che "l'approvazione capitalistica della prassi sociale... non può fare tuttavia a meno di loro [donne e uomini] come agenti effettivi delle pratiche stesse", e non riduce mai la fabbrica snella a luogo incontrastato di un dominio del capitale privo di contraddizioni.
A conclusioni non dissimili ci porta la lettura della pars construens del ragionamento di Bihr. In lui ritroviamo, addirittura mescolate insieme, un po' tutte le proposte che la sinistra radicale italiana ha avanzato in questi anni per far fronte alla disoccupazione: la riduzione dell'orario di lavoro, a parità di salario, massiccia, rapida e generale (da noi: Mazzetti, Ravaioli), i lavori socialmente utili (da noi: Lunghini), il reddito di cittadinanza (da noi: gran parte della diaspora dell'operaismo).
Si tratta di un frullato generoso, ma non poco confusionario. Una versione forse migliorata, quella a cui comunque andrebbero le mie simpatie, è la seguente: affinché la riduzione dell'orario di lavoro non sia riassorbita come secondo lavoro in nero, e affinché il reddito sociale garantito non sia ridotto a salario di disoccupazione e di precarietà, in entrambi i casi sancendo la tendenza naturale a una "società duale", le due misure vanno perseguite insieme. Il reddito minimo dovrebbe essere concepito come retribuzione piena di un lavoro utile, magari prestato per un certo periodo di tempo in una rete di imprese alternative di tipo cooperativo secondo piani di riorientamento sociale della produzione; il suo livello dovrebbe essere tale da rendere concreta l'opzione di "uscita" dal mercato del lavoro, e dunque consistente. Diverrebbe in questo modo praticabile una riduzione dell'orario di lavoro sull'arco vitale, tale da andare incontro alle esigenze di flessibilità nell'uso del tempo che non sono appannaggio esclusivo delle imprese. Lo sviluppo di piani alternativi di produzione potrebbe prendere piede lenticolarmente in occasione delle ripetute crisi locali che si accompagnano alle ristrutturazioni.
Secondo Bihr, potrebbe così configurarsi, a margine dell'economia capitalistica dominante, un'"economia alternativa", in cui deperisca il lavoro salariato e l'attività umana si sottragga alle mediazioni del mercato e dello Stato.
Quale che sia il valore intrinseco della proposta concreta che abbiamo ritagliato dai capitoli finali di Bihr, vale la pena di sottolinearne qualche merito e gli evidenti limiti.
I meriti, innanzitutto. Bihr ribadisce ripetutamente nel suo libro che una strategia rinnovata del movimento operaio richiede "[un]a lotta anticapitalistica [che] deve dispiegarsi contemporaneamente dentro e fuori i luoghi di lavoro, puntando alla riappropriazione delle condizioni sociali di vita nella loro totalità e ponendo fine alla separazione tra movimento operaio e 'nuovi movimenti'". Perché la via al rinnovamento che propone abbia successo, Bihr lo sa bene, "è necessario restituire ai lavoratori il controllo sul processo produttivo del quale sono stati espropriati". Per "lavorare meno, lavorare tutti", occorre anche "lavorare diversamente": non è possibile "traghettare" il lavoro fuori dall'area salariata verso "qualcos'altro", senza modificare insieme i rapporti di forza nel centro capitalistico, "riorganizzando il processo di produzione in tutti i suoi aspetti".
Al tempo stesso, del tutto a ragione, Bihr avverte - ma tesi simili erano circolate qualche tempo fa anche in Italia, ottenendo scarso ascolto - che ribadire per questa via la centralità della lotta di classe non significa affatto affermare una qualche centralità organizzativa del lavoro, dando così ragione almeno in parte alla critica dei verdi e del movimento delle donne al "produttivismo" del movimento operaio tradizionale. È questo un punto che è praticamente scomparso nella discussione italiana recente, passata dall'egemonia di un operaismo pressoché trasversale alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta a una di fatto incontrastata ideologia della "fine del lavoro".
Ultimo merito, messo bene in chiaro dalla postfazione che Oscar Mazzoleni appone al volume: Bihr riconosce, a differenza dei suoi omologhi italiani, che un'alternativa riformista "al modello liberista attualmente egemonico" è praticabile, benché di difficile implementazione: il "progetto neosocialdemocratico" implica un nuovo patto salariale, un coinvolgimento negoziato dei lavoratori, un controllo sull'introduzione di nuove tecniche, una garanzia dinamica dell'impiego, un aumento del tempo libero, una concertazione internazionale che ridia fiato alle politiche nazionali. L'armamentario del nuovo riformismo non è lontano, e anzi complementare, a quello di Bihr: reclama anch'esso un "terzo settore di utilità sociale", la riduzione dell'orario di lavoro, uno Stato leggero. In fondo, ciò che si propone Bihr è di sovvertire dall'interno il progetto neosocialdemocratico, nella coscienza di un esito incerto a priori di questo tentativo.
Passiamo ai limiti del discorso dell'autore francese. Non è possibile qui, per ragioni di spazio, chiarire in che senso l'impianto interpretativo della crisi del fordismo di Bihr e dei suoi epigoni italiani sia debole: perché sottovaluta il ruolo globale dell'egemonia statunitense nella stagione keynesiana, quello sì un modello autenticamente "mondializzato"; perché non registra il carattere frammentato dei capitalismi nell'era cosiddetta liberista; perché, soprattutto, non vede che il carattere essenziale della fase attuale è l'allungamento della giornata lavorativa sociale, non la sua riduzione. Ci limitiamo, dunque, a rilevare tre contraddizioni:
1. La prima è, per così dire, ideale. Se Bihr, a ragione, insiste sulla imprescindibilità di una rimessa in discussione del potere capitalistico dentro i luoghi di lavoro affinché la sua strategia di contropoteri anche fuori dal settore capitalistico abbia successo, cionondimeno l'obiettivo a cui mira il suo discorso è, del tutto esplicitamente, la liberazione dal lavoro, il non-lavoro (come chiarisce inequivocabilmente la p. 156); qualcosa che fa a pugni con le dinamiche reali e, per chi ci tiene ancora, con il lascito marxiano.
2. La seconda, che in qualche modo discende dalla prima, è che nel volume l'"economia alternativa", il terzo settore, sembrano venire immaginati come un luogo che, una volta raggiunto, è integralmente emancipato dal mercato e dallo Stato, un "altrove" - si nega così il carattere totalitario del dominio del capitale, che investe non solo la produzione ma anche il consumo e la cultura, e da cui la liberazione o è di tutti o non è. Il che non esclude, è chiaro, che il terzo settore sia qualcosa eventualmente da perseguire, ma esattamente nello stesso senso in cui era interesse dei lavoratori il salario reale crescente o il welfare state dell'era fordista, cioè come luogo di contraddizioni e ambiguità dentro, non fuori, l'universo capitalistico; come quelli, d'altronde, il settore no profit funge da ammortizzatore di tensioni sociali, ed è indirettamente funzionale all'accumulazione capitalistica.
3. La terza, e forse la più radicale, investe il sogno politico di Bihr che nello sviluppo di una rete di contropoteri si possa intravedere il mezzo di una riduzione del peso del mercato e dello Stato, di una lotta per l'egemonia sul legame sociale. Eppure, basta dare un'occhiata all'"economia alternativa" di Bihr per rendersi conto che essa richiede più Stato, più mercato, più conflitto. Uno Stato in grado di reperire risorse e comandare la loro allocazione micro e macroeconomica (una fiscalità altamente progressiva, una politica industriale attiva, un piano generale del lavoro); un mercato in grado di stimolare il capitale a tassi elevati di crescita della produttività (che, un po' tecnocraticamente, Bihr e i suoi epigoni italiani vedono cadere come manna dal cielo); un conflitto sociale in grado di ergersi a vincolo sociale impedendo al capitale di perseguire la via di minimo sforzo nella caccia al profitto (un movimento operaio, insomma, autenticamente sovranazionale).
Se la crisi del lavoro e del movimento operaio è drammaticamente reale, il "terzo settore" di Bihr non ne è certo la via d'uscita, perché presuppone che proprio i termini di quella crisi siano già risolti. E se lo statalismo e il produttivismo del movimento operaio di cui scrive Bihr sono tutto meno che una sua invenzione, il loro superamento passa per il tramite di una lunga lotta che prenda sul serio la forza sistemica dell'economia e della politica realmente esistenti, non in una loro immaginaria e parziale fuoriuscita basata su poco più che la buona volontà.
Nella discussione sul "manifesto", che ricordavo all'inizio di queste pagine, a essere in questione è proprio il giudizio sulla proposta di Bihr di un terzo settore volano dell'uscita dal lavoro salariato.
Rossanda imputa a Revelli, "sulla scorta di Bihr e Rifkin", di giudicare il liberismo "indiscusso, imbattibile", e per questo di rifugiarsi nel settore fuori mercato. Revelli, per suo conto, rivendica l'assoluta coerenza dell'interpretazione della crisi del modello fordista e del compromesso socialdemocratico che sta alla base di Appuntamenti di fine secolo con la strategia politica di Bihr: quella "di traghettare fuori dal sistema sempre più asociale delle relazioni di mercato, strati crescenti di popolazione per riaggregarli sulla base di un nuovo legame sociale... la prospettiva di spazi sociali liberati in cui prefigurare una società alternativa".
Come in una nota storia jiddish, al termine di questa recensione possiamo concludere che Revelli ha ragione nel sostenere che la liberazione dal lavoro, di cui Bihr è certo uno degli esempi più dignitosi, è il termine logico dell'interpretazione comune a lui, Ingrao e Rossanda; e che Rossanda ha parimenti ragione nel rigettare la fondatezza della proposta di "esodo" dal lavoro salariato inscritta dentro i ragionamenti di Revelli. E se qualcuno ci obiettasse che non è possibile concordare e con l'uno e con l'altra se non dichiarando che sbagliano tutti e due, beh, non potremmo che dargli ragione.


recensione di Mazzetti, G., L'Indice 1996, n. 5

Si prova un sottile disagio nel leggere il testo di Alain Bihr, perché nonostante la chiarezza, nonostante la profondità e la coerenza dell'esposizione, nonostante la condivisibilità di alcune proposte avanzate, c'è qualcosa di essenziale che non quadra. Di che cosa si tratta? Mi sembra di poter rispondere, nella brevità di queste note, che ci sia una contraddizione di fondo tra il tentativo, in buona parte riuscito, di fornire una ricostruzione delle condizioni storiche nelle quali ci troviamo, fatto in un evidente continuo dialogo metodologico con Marx, e la strategia suggerita, che viene invece articolata con un'impostazione decisamente anarchica. È come se, dopo aver egregiamente lavorato a individuare perché e come la società sia oggi piombata in un grave stato di crisi, Bihr rinunci a usare il risultato al quale è giunto per dar corpo ai suoi suggerimenti. Insomma, quando analizza come la storia ci ha fatti, Bihr è adeguatamente materialista, ma quando descrive come noi dovremmo fare la nostra storia, partendo da ciò che siamo, il peso del passato miracolosamente scompare. Non che scompaia del tutto, perché fa continuamente capolino in ogni singola argomentazione, ma mai nella forma di un criterio guida, di un vincolo generale.
Da questo punto di vista ritengo che la postfazione di Mazzoleni concettualizzi molto bene - seppure forse involontariamente - il succo della mia critica. Secondo lui, Bihr "ricostruisce la storia del movimento operaio europeo" come se questa fosse "scandita da una lotta tra modelli alternativi che determinano forme diverse di lotta politica e sindacale, strutture organizzative e 'culture politiche'". Ora, in tutta la prima parte del testo, questo approccio capovolto, con il quale invece di partire dall'individuo vivente si parte dal modello che avrebbe "in testa", è continuamente mitigato da un ricco e articolato confronto con gli eventi di questo secolo. Ma nella seconda parte esso prende il sopravvento, cosicché Bihr giunge a offrirci - al di là delle sue stesse intenzioni ben espresse dal titolo - una sorta di supermodello nel quale, proprio perché muove in modo idealistico, cerca di tenere assieme tutte le articolazioni e le proposte che offrono la prospettiva di uno sbocco positivo. Il pregio di questa parte del volume sta nell'equilibrio con il quale Bihr costruisce questo cammino e nell'ampiezza degli elementi che prende in considerazione, il difetto nella sua costruzione puramente logica, del tutto estranea alla vita vissuta. Ciò che gli impedisce di trovare un ordine gerarchico nell'elaborazione della strategia.
Un'ultima breve considerazione. Mi sembra del tutto ingiusto collocare Bihr, come taluni suoi lettori italiani fanno, tra i fautori dello sviluppo del cosiddetto "terzo settore". La sua costruzione non ha questi scadimenti. Si presenta nella forma di una teoria generale e solo all'interno di questa impostazione si accenna anche al terzo settore. Il fatto che l'alternativa proposta soffra di un'impronta idealistica non ha nulla a vedere con la ricerca di una scorciatoia salvifica.


recensione di Burgio, A., L'Indice 1996, n. 5

Il dibattito italiano sulle tesi di Bihr appare in gran parte dominato da un singolare paradosso. Non appena tradotto "Du Grand Soir à l'alternative", il suo autore è stato immediatamente iscritto al partito degli entusiasti del cosiddetto "terzo settore": in realtà, se molto delle sue posizioni suscita perplessità, il loro punto debole non è certo un'eccessiva indulgenza verso l'"economia sociale", nei confronti della quale, al contrario, Bihr svolge critiche durissime.
Le maggiori riserve concernono la "strategia" rivoluzionaria presentata nella terza parte del libro, e in particolare quelle caratteristiche che, con tutta probabilità, hanno imposto Bihr all'attenzione della "nuova sinistra" italiana. In primo luogo, una forte inclinazione anarchica, sorretta da una concezione demonizzante del potere come violenta "appropriazione privata" della "potenza sociale" (chi sa se Bihr, insegnante di filosofia, è consapevole del marcato accento spinoziano della propria argomentazione). Del resto Bihr, che afferma di perseguire l'obiettivo della "costruzione di una società anarchica", non fa mistero delle proprie simpatie per l'anarcosindacalismo.
Giudizi di valore a parte, sorprende come stenti a farsi strada il riconoscimento della contraddittorietà di qualsiasi progetto fondato su premesse anarchiche. Non è difficile comprendere che la predeterminazione di qualunque insieme di finalità si pone in contrasto, per definizione, con quella incoercibilità delle istanze emergenti dal basso che costituisce il vincolo essenziale della posizione anarchica. L'unica via d'uscita da questa impasse è offerta da finalità che appaiono indiscutibilmente condivise in virtù della loro assoluta astrattezza. Di questa soluzione è costretto a servirsi anche Bihr nel presentare le forme della "socialità alternativa" all'organizzazione sociale capitalistica.
Obiettivo del conflitto anticapitalistico sarebbe "una vita governata da pratiche e valori di una socialità conviviale" grazie alla quale l'"individualità sociale" potrà "riappropriarsi del senso e del contenuto dei rapporti con il mondo, con gli altri e con se stessi": come rimanere indifferenti a tali suggestioni? Ma come dominare l'inquietudine quando l'ultima pagina del libro dichiara, con disarmante franchezza, che si è ancora sprovvisti, tuttavia, proprio "di una teoria dell'individualità, di una psicologia, di un'etica, di una pedagogia, ecc., capaci di fondare e rafforzare il desiderio di autonomia individuale"?
Tutta l'analisi di Bihr riposa sul presupposto essenziale dell'anarchismo (e del liberalismo), la convinzione che politica (Stato) e società (mercato) siano nella realtà ambiti distinti e separati. Dopodiché sembra plausibile e seducente - non fosse che per la semplicità della ricetta - l'idea di "liberare la società dallo Stato" per restituirla alla sua originaria libertà. I guasti prodotti da simili mitologie nella cultura e nella pratica politica di una sinistra convertita al culto delle privatizzazioni sono sotto i nostri occhi. Sarà forse per effetto di questi orientamenti che si è finito con l'attribuire anche a Bihr quella tendenza alla trasfigurazione del "terzo settore" che ci affligge da tempo.
Senonché verso le posizioni à la Lipietz Bihr è impietoso. Intanto non accetta affatto la premessa che l'antagonismo possa ormai svilupparsi solo "fuori dal lavoro", n‚ rinuncia a fare del movimento operaio il protagonista della "prospettiva anticapitalistica". Poi, sulle proposte costruttive dei fautori dell'"economia sociale", scarica critiche non propriamente tenere, volte a porne in rilievo gli esiti corporativi: "Se dovessero realizzarsi, l'insieme di queste proposte approderebbero ad una versione di sinistra, 'addolcita' dalla convivialità autogestionaria, della 'società duale', di cui ciononostante non sarebbero eliminati tutti gli aspetti repressivi". Ci vuole una buona dose di fantasia per assimilare questa prospettiva a quella di chi, come Rifkin, affida allo sviluppo del no profit il compito di risolvere le contraddizioni del cosiddetto capitalismo postfordista.
Bihr scorge un segno di subalternità anche nella richiesta di un salario minimo garantito che, a suo giudizio, non riscatterebbe il disoccupato dalla triplice situazione di "proscritto", "assistito" e "sospetto". Per misurare la distanza tra le sue posizioni e quelle dei nostri appassionati del no profit si legga in che modo "Extra" (il settimanale del "manifesto") suggerisce di finanziare le attività "fuorimercato": "Padri e madri a cui è già assicurata la pensione (che sarà pagata dai contributi dei figli occupati) potrebbero accettare di sostenere con i fondi per la liquidazione il reddito anche dei loro fratelli o sorelle rimasti disoccupati". La citazione è tratta dal numero del 1| aprile, ma non c'è da sperare che si tratti solo di un pesce.

Leggi di più Leggi di meno
Chiudi
Aggiunto

L'articolo è stato aggiunto al carrello

Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

Chiudi

Chiudi

Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.

Chiudi

Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore