Racconta di un turbamento, quasi un fastidio che la spinge a fuggire e ritrarsi di fronte alla tomba del poeta tanto ammirato, Anna Maria Ortese, come se la vergogna di "essere viva" di fronte ai "resti gloriosi" di Giacomo Leopardi, tramutata nel sentimento di un'involontaria "offesa" verso chi non lo è più, fosse in fondo un passo naturale, inevitabile per lei, un respiro appena trattenuto prima che il marmo, la primavera e i suoi rami verdi, il rumore della gente intorno possano riemergere, essere di nuovo percepiti e accompagnare i gesti, i pensieri del dolore. Ed è, a ben guardare, la cifra rovesciata che la scrittrice utilizza nell'incontro con i libri, le suggestioni, le figure di riferimento che compongono la raccolta di scritti di oltre cinquanta anni di attività giornalistica (dal 1939 al 1994) dell'autrice di Il cardillo addolorato e Il mare non bagna Napoli, solo per citare alcune fra le sue opere riferimento del Novecento. Sì, perché nel leggere le pagine di Da Moby Dick all'Orsa Bianca, con le recensioni, gli articoli, le note su Paola Masino, Elsa Morante, Hemingway, Cechov, De Amicis (più in appendice alcune lettere indirizzate a Bontempelli, Citati, Masino, Fleur Jaeggy), raccolti e curati da Monica Farnetti, a colpire profondamente è l'implicita e necessaria, imprescindibile richiesta di vitalità e autenticità che Ortese individua come discrimine tacito e netto, fisiologico, di ogni nucleo che voglia e possa definirsi tale nelle riflessioni sulla letteratura, sulla vita. Lontana dal momento della sofferenza estrema, quella vergogna di "essere viva'" si traduce nel suo opposto, da non intendere alla forma imperativa, ma da ricercare invece nella dolcezza di una vocazione, nel desiderio di aderire all'ordine delle cose e del mondo: non una pretesa di vitalità, pertanto, quanto, piuttosto, una spasmodica e impetuosa, naturale ricerca di verità. Senza per questo aspirare a orizzonti fittizi o inseguendo false illusioni, perché come accade nelle Ricordanze, "dove quella che sale nella notte, a cantare, non è più la voce di un uomo, ma degli uomini tutti, della loro Anima, realtà dolorosa, il cui mistero non ha soluzioni, i cui piaceri ed affetti non avranno in eterno che la conclusione di una lagrima", nulla può essere fermato e fatto nostro se non considerando gli inciampi, le illusioni ottiche che sole forse possono aiutare a mettere a fuoco il nostro destino, a educare le nostre aspirazioni, correggere e migliorare lo sguardo. Restano, fra le altre, le pagine su Anna Frank, Saffo, Thomas Mann, Buzzati. Quelle dedicate ai maestri spagnoli alla mostra di Ginevra (articolo uscito nel 1939), insieme alle altre, appena degli schizzi, su Tintoretto, Tiziano, Raffaello; quelle su De Amicis, che suggeriscono come "la poesia non si fa se non per caso (
): la poesia si fa perché le api fanno il miele, gli uccelli volano, i vulcani tuonano". Brillano poi le pagine su Cechov, un esercizio di grazia ed eleganza intonato alla vita e ai suoi meccanismi, anche nella dimensione letteraria: "Lui, Cechov, era fin troppo conscio dello straordinario interesse della vita, troppo innamorato della sua purità e comunque troppo schivo di inganni e artifici, per permettersi di sostituire coi suoi argomenti quelli di lei. La lasciava fare
balbettare e sorridere, addormentarsi e svegliarsi senza perché, con una strana tenerezza, come un uomo che sta per morire guarderebbe il sole sulla finestra o un uccello che s'è fermato su un ramo, ch'è già prodigio, e che non lo sa". Raffaella D'Elia
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