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Anno edizione: 2018
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Confesso che ho letto il libro nella prima versione fattane in italiano nel 1988 (tradotta dal tedesco, non dall'ebraico, e più breve), trovandolo ancora, incredibilmente, in una piccola libreria: una cosa che sarebbe piaciuta, suppongo, al bibliofilo ossessivo che fu Scholem. Il racconto degli anni della sua formazione scorre piacevolmente e rende la complessità dell'ebraismo tedesco nell'epoca tormentata di Weimar. Un capolavoro di questa prima traduzione merita una citazione: a pag. 88 si legge "ci piacquimo". Neppure la fantasia di un Totò avrebbe potuto tanto.
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L’autoinganno dell’assimilazione, il miraggio di sentirsi a casa nella patria tedesca, una giovanile illusione foriera di future catastrofi. Nel primo scorcio del Novecento la comunità ebraica di Berlino (quasi centocinquantamila persone) che aveva raggiunto un certo benessere e non era particolarmente rigida su pratiche e riti religiosi, era decisamente in crisi sul piano spirituale, guardava con fastidio alle idee sioniste, sopportava appena i più intransigenti e ortodossi fra i propri componenti e spasimava per una inclusione nella società. Una sciagurata e collettiva crisi d’identità, pennellata in un “affresco” da uno dei suoi figli più colti e rappresentativi, Gershom Scholem, morto nel 1982 a 85 anni, intellettuale di immensa statura, studioso di mistica ebraica e cabala, storico delle religioni e filosofo, amico di Buber, Agnon e Benjamin. Pubblicata da Einaudi, nella traduzione dall’ebraico di Saverio Campanini, l’autobiografia intellettuale di Gershom Scholem, Da Berlino a Gerusalemme (290 pagine, 20 euro), racconta il primo Novecento ebraico e non in Germania, un popolo disorientato, davanti al precipizio degli anni successivi che culmineranno nell’abisso della Shoah.
È un libro commovente, perché è un libro sulla gioventù, su un viaggio interiore e fisico, su un dolore lungo decenni, una storia personale che si intreccia con quella collettiva; è il racconto di un punto di osservazione minoritario in terra tedesca ai primi del ventesimo secolo, quello del sionismo, è un doppio no, al nazionalismo tedesco (di cui era convinto sostenitore anche il fratello Reinhold) e al comunismo (abbracciato dal fratello Werner, che sarà ucciso nel lager di Buchenwald nel 1940), è la libera scelta di sbarcare in Israele a metà degli anni Venti: lì Scholem sarà tra i fondatori dell’università ebraica. Negli anni precedenti il giovane Gershom rifiuta di percorrere il solco paterno e tronca il rapporto col genitore (padrone di varie tipografie), evita la chiamata alle armi; lui e la sua anima avevano scelto la strada della lettura senza sosta, la voglia di tornare alla tradizione, di imparare l’ebraismo, di scovare vecchi volumi nelle librerie antiquarie e di perdere la concezione del tempo in settimane interamente trascorse nelle biblioteche: lascia nel 1919 gli studi matematici e naturalistici, per i quali è anche portato, e sceglie di dedicarsi a filologia e mistica.
Gershom Scholem, in questo personalissimo libro (ne esistono due versioni, una in tedesco del 1977 e una in ebraico del 1982) narra le prime scelte dell’età adulta, un’epoca scomparsa e la scelta morale di andare in Palestina, «una decisione presa a favore di qualcosa che allora ci sembrava inequivocabilmente un nuovo inizio». Si ritrae sedicenne, colmo di emozione, mentre legge per la prima volta il Talmud, nell’impatto con una tradizione millenaria, nella scelta di sprofondare nello studio con dedizione totale. Il progetto di rinnovamento a cui aspira può trovare risposta solo nel sapere del mondo ebraico, nel ritorno alle origini, nell’opposizione al microcosmo tedesco in cui è cresciuto e in cui si allontana negli anni degli studi: si interessa, in modo inquieto, a mistica e chassidismo; al giudaismo laico, alla follia nazionalista tedesca e al crescente antisemitismo (all’«incapacità di giudizio» degli ebrei su cosa stesse succedendo loro) che avrebbero condotto alla Shoah, oppone la religione dei padri, il recupero dell’antico ebraico, un lucido sionismo, non profano e secolare come poteva apparire, ma di natura mistico-religiosa e anarchica.
Recensione di Micol Treves
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