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Il mito del narratore abruzzese, perennemente impegnato ad idoleggiare tratturi, pecore e cime innevate, è finalmente sfatato. Assistiamo oggi, con entusiasmo, al trapasso di uno stereotipo troppo a lungo addossato sul groppone di chi cercava di discostarsi da una tradizione letteraria opprimente che, oltre al verismo di un mostro sacro come Silone, nient’altro ha dato alla luce se non cloni ossequiosi e allievi inidonei a superare il maestro. Presenziamo, allora, alla nascita di una nuova generazione di autori, autrice nella fattispecie, che, nonostante le origini, travalica i limiti geografici dell’immaginazione per spaziare in nuove ambientazioni, approntando il set principale del romanzo nella canicola della città di Washington. La vicenda, dalle forti tinte gialle, s’impernia attorno ad un commercio illegale di organi. I protagonisti, opportunamente schierati tra buoni e cattivi, hanno tutti spessore rilevante, essendo l’autrice maestra nel fornire ognuno di loro di un background palpabile e plausibile. Il lavoro di Maria Pia Trozzi sfugge completamente all’omologazione che vuole i thriller caratterizzati da ritmi serrati, immagini cruente e trame intricatissime. Rifiuta, a priori, l’indottrinamento dell’inflazionata scuola americana, che sforna gialli con lo stampino, e dota il suo lavoro dei ritmi lenti e riflessivi propri dei monti abruzzesi. Dimostra, così, d’aver troncato il cordone ombelicale con la sua terra soltanto per quanto riguarda i temi trattati e non per l’incedere graduale e assennato che caratterizza il suo lavoro. Il risultato è un romanzo in cui niente è lasciato al caso né all’immaginazione. Un corpo narrativo compatto. Finito. Senza inutili dispersioni. Dell’autrice sentiremo parlare.
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