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Anno edizione: 1998
Anno edizione: 1998
(recensione pubblicata per l'edizione del 1985)
recensione di Sleiter, R., L'Indice 1989, n.10
Abituati come siamo alla bella prosa ricca e umana dell'Artusi, sembra difficile poter dire che esista un altro libro di cucina "mediterranea" altrettanto bello da leggersi e ancora più utile da seguire. L'autore, Enrico Alliata di Salaparuta, fu personaggio ben diverso dal sanguigno figlio di droghiere, appassionato di lettere e di fornelli, che amava le abbuffate di cappone, il tacchino ripieno come si faceva nella natia Forlimpopoli e i pasti di sei, sette portate descritti con l'aria di niente.
Il duca di Salaparuta proprietario dei vigneti di Casteldaccia, da cui si produceva lo splendido Corvo, rosso e bianco, fu uno di quei gentiluomini internazionali con case e palazzi nell'isola e relazioni in tutte le corti d'Europa. E non voleva, per il semplice peccato della gola, trovarsi implicato in orrendi delitti contro il genere animale. Seguace di quella corrente di pensiero molto anglosassone, dopo essere stata per secoli principalmente orientale, che va sotto il nome di "teosofia", Enrico Alliata di Salaparuta guardò alla tavola per tutta la sua lunga e prolifica vita come a un rito d'attenzione verso il prossimo e verso l'ospite. Possibilmente il meno cruento possibile. Nelle sue tavole imbandite trionfavano le invenzioni vegetariane di naturismo crudo che in quegli albori del secolo tanto piacevano ai benpensanti della buona società europea. Nella passione per i fornelli, che considerò un apostolato da portare avanti con stile nella buona e nella cattiva sorte, il duca non era solo. Insieme a lui si potrebbero citare i nomi di milord russi, come li chiamavano a Firenze, di alcuni nobili tedeschi seguaci del Kaiser Guglielmo; di intellettuali decadenti e di appassionati anarchici che alternavano la voglia di purezza sociale a qualche delitto altolocato e a un pasto a base di radici e verdure bollite. Il duca di questa schiera fu alfiere elegante e raffinato, amante del convivio, attento alle cose di casa, interessato, persino, a vedere che cosa si mettesse in dispensa oltre a ciò che producevano i campi siciliani della sua tenuta. Nel ritratto affettuoso che Gioacchino Lanza Tomasi ne fa nell'introduzione questi dettagli non vengono esplicitati, ma ce ne è forse bisogno? Basta leggere oltre il proclama iniziale nel quale spiega come vivere fino a 130 anni garantiti (e forse anche oltre) mangiando cibi sani e vegetali, basta leggere le sue ricette di "bodino di riso all'italiana", "fricassea di funghi", "brioscia farcita" e "caciata " per sentire il profumo di un cucinare operoso e fantasioso, allegro e sano.
E tra un brodo alla finta tartaruga e una minestra di pseudo rane, tra una ricetta per riutilizzare il pane duro e venti per cucinare i carciofi o i cavoli, anche l'italiano che usa il duca nei suoi diari di cucina è invitante e fantasioso, conciso e gentile come si conviene a un gentiluomo che parla di "discendere il riso e condire", di "servire con formaggio raspato". Diceva Voltaire, e lo ricorda Lanza Tomasi, che un gentiluomo è colui che sa tutto senza aver imparato nulla: il duca di Salaparuta in quanto a casa e cucina sembra fare parte della migliore schiatta.
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