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Sono prose poetiche bellissime
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"Cronaca perduta" è quella che le cronache non registrano, troppo anonima per fare nome, troppo poco vistosa per fare notizia, troppo sommersa per costituire spettacolo, ma soprattutto troppo marcatamente abnorme per essere coscientemente registrata. Evidentemente turbato, sensibilmente attivato in una risposta alla crise de vers (Mallarmé) generalizzata che ci avvolge, Rossi sta lavorando a un progetto entro il quale teoria e pratica del personaggio sociale vantino una coraggiosa ospitalità entro la tradizione del genere poesia; la quale tradizione, come è noto, dà e prende, dà gli strumenti riconoscibili e consacrati, prende altri sussidi considerati prima d'ora forestieri.
Questo è il dato più clamoroso, non tanto perché l'apertura costituisca propriamente una novità (almeno da Montale in poi, il vezzo dell'accesso a tratti di prosa poetica, poi accentuatosi soprattutto in ambito milanese, non è poi così raro né scandaloso), quanto per il fatto di essere impiegata in modo sistematico, antilirico e paradossalmente "scientifico". La sterzata entro la prosa è ora dunque sistematica, non tanto per un fatto puramente grafico e suggestivo, quanto per la decisione di pensare in prosa i pezzi di vita anonima scelti come corpo del libro: apparente ricognizione di tipologie sociali e dunque accantonamento radicale (qui è la vera novità e non certo solo a partire da questo libro) della spinta dell'io a porsi comunque come centro di attenzione relativamente all'eccitazione emotiva e esistenziale del soggetto. Nei poeti generalmente l'io se ne va fuori di sé in una caccia verso il mondo che alternativamente si pone in una prospettiva dall'alto ovvero dal basso; però in genere non conta se l'io, quando entri a dominare la mozione esistenziale del poeta, trovi legittimità espressamente grammaticale dentro il testo; importa il punto di vista che dal testo si irradia e che dal lettore attento viene comunque avvertito come primato dell'io, appunto.
Niente di tutto ciò in questo autore. Viene allora da chiedersi se la questione dello slittamento dei generi non si ponga qui nel modo più autorevole ma anche implicitamente drammatico: quali sono le ragioni che hanno indotto l'editore a includere questa prova letteraria all'interno della propria collana di poesia? Forse il fatto che Tiziano Rossi sia uno dei poeti più noti e più seri del panorama nazionale? Sembrerebbe una conclusione un po' superficiale. In realtà credo ci sia dell'altro. Forse c'è il senso di una resa dichiarata sul campo. Forse invece l'autore intende semplicemente suggerire che dal punto di vista del pubblico a livello intergenerazionale la vista della poesia si presenta ormai come qualcosa che può essere traumatico. Forse, infine, non sopporta di dover risolvere il dramma della "crisi di verso" in direzione di un patto stoico con il vuoto di ascolto. Rossi è comunque il protagonista, e il recettore più sensibile, di una capitolazione storica.
In realtà è all'interno delle strutture linguistiche del libro che si può trovare una spiegazione. Si può dire dunque che il versante fabulistico e quello asemantico sono come due partiture parallele che si inseguono, si alternano, si intrecciano: la decodifica si gioca su due livelli, ma nessuno dei due è univoco; non lo è quello della fabula, poiché sottrae di continuo carattere di generalità sociale alle situazioni messe in atto; non lo è quello dell'organizzazione linguistica, poiché tende con accattivante maestria a decostruire il concreto e, rispettivamente, a sostanziare l'assurdo. Quanto più la favola si avvicina al vero, tanto più lo strumento linguistico tende ad allontanarla dal piano asseverativo. In questi ottantaquattro medaglioni tipologici sembra dominare uno scenario di crudeltà, di assurdo, fino ad addentrarci talvolta nel dominio del fiabesco raccapricciante, talvolta fumistico, nell'area del perturbante freudiano; ma contemporaneamente filtrano dalle ottantaquattro cannucce piccoli fili che cantano l'acqua torva e velenosa del neodarwinismo sociale, dell'alienazione urbana magari dotata di qualche spiraglio di speranza sensoriale, alternando pietas e cinismo.
Il libro brulica di nomi. Alla designazione pietosamente identitaria corrisponde l'anonimato sostanziale, la vacuità di potere degli attori messi in gioco: questo è il messaggio ambiguo che il libro ci affida. Ma vi si è coinvolti anche in altri modi. Basti pensare a quanti nomi di maestri variamente visivi vengono in mente nel potenziale riferirsi di queste prose a partiture figurative o filmiche: da Buñuel a Fellini a Godard, da Magritte a Dalì a Otto Dix, da Escher a Botero a Max Ernst. E quanto ai modelli letterari? Tra i molti, da rinvenirsi piuttosto nella famiglia dei prosatori, non dovrebbe essere azzardato il riferimento al realismo magico di Bontempelli.
Giorgio Luzzi
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