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Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch - Gerardo Cunico - copertina
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Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch - Gerardo Cunico - copertina
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1988
1 gennaio 1988
344 p.
9788821186493

Voce della critica


recensione di Ceppa, L., L'Indice 1990, n. 1

Un'opera ambiziosa dal duplice obiettivo. L'autore vuole, prima di tutto, ricostruire dall'interno, sul piano storiografico e filologico, i sistemi teorici di Habermas e di Bloch. In secondo luogo, egli si serve di quest'analisi per approfondire, sul piano teoretico e speculativo, la filosofia utopica e religiosa di Ernst Bloch. Dal primo punto di vista il libro appare come la somma di due ricche monografie, due medaglioni anche separatamente apprezzabili; dal secondo punto di vista l'inversione cronologica delle trattazioni corrisponde alla strategia speculativa di chi vuole subordinare, o strumentalizzare, Habermas al pensiero blochiano. L'utopia formale e metodologica di Habermas non può raggiungere i suoi obiettivi - questa la tesi di Cunico - se non viene tradotta nell'ottica metafisica e ontologica del finalismo blochiano.
La prima parte del libro è dedicata alla ricostruzione dell'accidentato percorso habermasiano. Allievo di Rothacker e influenzato da Heidegger, il giovane Habermas è caratterizzato dalla stessa impostazione ontologica da cui prende le mosse il primo Marcuse. Ma l'influenza della critica adorniana al fondamentalismo husserliano si rivela decisiva. A partire dal 1957 Habermas abbandona l'impianto ontologico dello storicismo e si apre la strada verso una concezione dialettica della prassi. Da "Storia e critica dell'opinione pubblica" (1961) ai saggi di "Teoria e prassi" (1963) Habermas appare invischiato nelle contraddizioni del modello dialettico di ascendenza marxista: si tratta di dedurre dal corso della storia il criterio cui questa va commisurata. "È da questa difficoltà - scrive Cunico - che nasce per Habermas l'esigenza di ripensare il rapporto, già rimarcato da Horkheimer, della teoria critica con un interesse emancipatorio che guida fin dall'inizio la sua analisi e la sua riflessione sulla società presente" (p. 66). Così in "Conoscenza e interesse" (1968) i problemi della dialettica cercano una soluzione gnoseologica e antropologica: la teoria della società fonda la sua dimensione critica su quegli "interessi-guida della conoscenza" che sono per un verso condizioni a priori (o trascendentali) dell'esperienza possibile e per l'altro verso interessi universali che si radicano nella storia generale ed empirica del genere umano. L'interesse tecnico a padroneggiare la natura, l'interesse pratico all'ampliamento dell'intesa intersoggettiva e l'interesse emancipatorio alla liberazione dei processi comunicativi da ogni forma di costrizione costituiscono per Habermas dei sistemi di riferimento "quasi-trascendentali": l'anno una funzione trascendentale, ma una genesi empirica (p. 72). La svolta fondamentale avviene negli anni settanta: Habermas abbandona la teoria degli interessi conoscitivi in favore di una pragmatica universale come "teoria della competenza comunicativa". Nella "Teoria dell'agire comunicativo" - due grossi volumi apparsi nel 1981 - il parricidio di Habermas nei confronti di Adorno è un fatto compiuto. La vecchia ragione dialettica hegeliana viene sostituita da una teoria della competenza comunicativa che, nei termini di una ragione procedurale, ricostruisce come sapere esplicito ("know that") le regole di quel saper fare ("know how") intuitivamente adoperato da ogni soggetto parlante.
Il senso complessivo dell'operazione di Habermas - abbandonare la ragione sostanziale e dialettica di Horkheimer e Adorno in favore di una ragione procedurale ed empiristica di tipo anglosassone - viene da Cunico giudicato controproducente. "Senza un collegamento materiale con aspettative, valori, progetti di realizzazione dell'umanità, concezioni prospettiche della 'vita buona' [...] non è possibile nessun principio morale, nessuna fondazione o critica di norme" (p. 142). Nello scontro che vede oggi contrapporsi nella Germania federale da un lato il neoaristotelismo di Joachim Ritter e l'ermeneutica di Gadamer e dall'altro lato il neokantismo di Habermas e Apel, Cunico si schiera apertamente con i primi (del resto egli aveva già premesso una bellissima introduzione alla traduzione italiana, da lui curata, dei saggi di Ritter, "Metafisica e politica", usciti presso l'editore Marietti nel 1983). Soltanto filosofie come quelle di Ritter, di Gadamer e di Bloch sono in grado di teorizzare adeguatamente l'eticità sostanziale che è da sempre incarnata nelle istituzioni della vita civile, laddove il neokantismo trascendentale di Habermas e di Apel si limita a riprodurre la scissione atomistica di una soggettività morale meramente interiore e intenzionale. "Nella prospettiva di Habermas, dunque, le strutture procedurali della "Moralitõt" non risultano mediabili con le esigenze della "Sittlichkieit" [...] Il principio procedurale si condanna da sé all'impotenza criteriologica e all'inefficacia pratica, e alla fine abbandona gli interessati al proprio destino, essendo incapace di offrire loro un orientamento (o anche solo di dare espressione alle loro domande)" (p. 146). Il formalismo dell'ultimo Habermas - che intende la "situazione discorsiva ideale" non nei termini di una anticipazione utopica della "vita buona", né come progetto di una forma totale di vita, ma piuttosto come quel mero postulato metodologico che consentirebbe a ciascuno di rendere il proprio personale progetto di vita compatibile con quello degli altri - viene a perdere per strada ciò che a Cunico sta soprattutto a cuore: il nucleo ontologico, metafisico e utopico di un'ermeneutica intesa come filosofia speculativa della storia.
La ricostruzione della filosofia di Bloch occupa la seconda parte del volume, collocandosi tra i migliori contributi italiani sull'argomento. Cunico mostra nei dettagli come nella coscienza utopica di Bloch si saldino insieme (per procedere al di là di sè) due grandi tradizioni culturali: quella di un marxismo che, riattingendo alle sue radici escatologiche, si apre al mistero dell'essenza umana e della possibile conciliazione dell'uomo con la natura, e quella di un cristianesimo che, liberatosi della trascendenza come ipostatizzazione teologica, si traduce in una sorta di messianismo ateo e di filosofia metareligiosa. "Il cuore della filosofia blochiana è racchiuso in una ontologia processuale orientata in senso utopico-escatologico" (p. 324). Già fin dalla prima edizione (1918) di "Spirito dell'Utopia" Bloch definisce in modo perentorio la direzione utopica del suo filosofare: "Perché ciò che è non può essere vero, ma vuole raggiungere la sua patria attraverso gli uomini" (cit. a p. 182). Gli interrogativi esistenziali sospingono la riflessione etica non soltanto sul piano della politica, ma anche in quella dimensione ontologica dove l'orizzonte della storia si dischiude all'eternità. L'etica utopica del 'regnum hominis' è orientata al motivo classico della felicità come sommo bene. I valori e le idee guida in cui il sommo bene s'incarna non vanno assunti come criteri formali del comportamento, ma come motivazioni materiali della prassi. Lo stesso sommo bene è l'ottativo sostanziale che guida la storia del mondo e non una formula astrattamente prescrittiva. Nelle parole di Cunico: "Il sommo bene come fine ultimo non è una determinazione semplicemente del valore dell'azione [...] ovvero dell'intenzione, della volontà o della disposizione di fondo del carattere. Riguarda piuttosto la riuscita dell'intenzione, l'esito dell'azione, la realizzazione della volontà. Il suo dover-essere non è quello dell'agire, ma quello di un essere che deve essere realizzato" (p. 252). Insomma è l'attuazione aristotelicamente dispiegata delle potenzialità che si nascondono nella natura dell'uomo.
In questa prospettiva Cunico ripercorre gli ampi panorami del "Principio speranza" dedicati da Bloch all'illustrazione delle tradizioni utopistiche e giusnaturalistiche (p. 222 sgg.), alla fenomenologia della coscienza anticipante, all'ontologia del non-essere-ancora (p. 265, sgg.). Nel corso della trattazione (della cui ricchezza non è possibile, in questa sede, render conto in misura sufficiente) al lettore diventa progressivamente chiaro come mai nell'ottica di Bloch sia sostanzialmente impossibile distinguere tra ragione soggettiva (nominalistica, ipotetica, convenzionale) e ragione oggettiva (come struttura e processo del mondo). Il soggetto della sua filosofia infatti, il soggetto che interroga e pone la sua domanda fondamentale, non è per Bloch l'uomo come isolato ed effimero abitatore del mondo, quanto piuttosto il mondo medesimo, come processo che ricerca la propria origine e il proprio senso. "La domanda: a che scopo? è la domanda che il mondo stesso ci pone" (p. 299).
L'eleganza e la profondità del libro di Cunico rendono ancora più paradossale e provocatoria la sua tesi di fondo, che è quella di giocare l'utopia metafisica e religiosa di Bloch contro l'universalità astratta e formale della "Diskursethik" di Habermas. Dico paradossale perché il percorso di Habermas si presenta come i. frutto di un allontanamento intenzionale dal vecchio modello di ragione dialettica e metafisica dei francofortesi (di cui l'utopia blochiana rappresenta per certi versi la variante mistico-religiosa). Esponendo uno stupendo dibattito epistolare tra Adolph Lowe e Bloch (p. 338 sgg.) Cunico si schiera per Bloch, laddove io vorrei prendere le parti dell'interlocutore. I tentativi umani di rendere meno ingiusta la vita sulla terra vanno letti come "experimentum hominis" e non come "experimentum mundi": essi non perdono significato per il fatto di poter essere un giorno annientati dal bruciante passaggio di una coda di cometa. "La vera utopia è melanconica": così s'intitola un raggelante aforisma dell'ultimo Horkheimer, scritto nello spirito del disincanto schopenhaueriano ("Taccuini 1950-1969", Marietti, Genova 1988, afor. 203). Habermas sta cercando una via d'uscita tra l'idealismo della totalità e il nichilismo della rassegnazione.
Vorrei chiudere con uno suo passo (da "Merkur 467", gennaio 1988) che sembra stato scritto apposta per replicare a. e obiezioni di Cunico: "Una teoria che ci facesse balenare davanti agli occhi la raggiungibilità di un ideale della ragione, ricadrebbe dietro il livello argomentativo raggiunto da Kant; essa equivarrebbe anche a un tradimento del retaggio materialistico della critica alla metafisica. Il momento d'incondizionatezza, che viene salvaguardato nei concetti discorsivi della verità fallibile e della moralità, non costituisce un vero assoluto, al massimo un assoluto che si è disciolto ne. a procedura critica. Abbiamo bisogno di questo resto di metafisica - ultima traccia di un "nihil contra deum nisi deus ipse" - per opporci alla trasfigurazione del mondo operata dalle verità metafisiche. La ragione comunicativa è certo un guscio oscillante - tuttavia essa non affonda nel mare delle contingenze, anche se quel beccheggiare in alto mare è l'unico modo con cui essa può venire a capo delle contingenze medesime".

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