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Nella Crisi della città, l’autore compie un percorso di pensiero che si pone come obiettivo quello di rintracciare il senso della pratica stessa del trascorrere la vita “pigiati in città”, ovvero il senso che sta all’origine di quell’affratellamento che chiamiamo “città”: quale gestualità lo supporta? O, meglio, che posture etiche mette in opera questo affratellamento e che modello sapienziale ne scaturisce? Il fatto stesso che la “città”, come modello di convivenza umana, si sia imposta a livello planetario superando la campagna fa capire l’attualità irrinunciabile delle domande che orientano il cammino teoretico dell’autore. Al centro del cammino a ritroso che l’autore compie troviamo sempre la figura dell’“eroe” nelle sue svariate declinazioni che vanno da quella ormai onnipervasiva del “guerriero”, del consumatore come declinazione odierna dell’archetipo del combattente, sino a quelle più sfumate e, perciò, più sfuggenti, del creditore-debitore, del monaco, del “sacerdote”, dell’intermediario tra cielo e terra, del messaggero degli dèi, sino a giungere a quelle ancora più dimenticate del poeta e, infine, del “fanciullo”, che inaugura una nuova sequenza di passi, ossia un nuovo farsi mondo del mondo, un’inedita danza e vortice di “verità” che di volta in volta genera un nuovo gioco con le sue innumerevoli vertigini di senso. E proprio la vertigine è la cifra della “città”, la costellazione in cui si inscrive la sua “sovranità” come luogo di salvezza dal debito, dalla morte. Ecco allora, il legame “dionisiaco” tra vino e fanciullo evocato nel libro: l’ebbrezza incarna la relazione profonda degli esseri umani tra loro e con la natura. È un “gioco” di maschere il rapporto tra città e campagna e il senso che ne deriva si inserisce in una prospettiva “erotica”: proprio Eros, «il fanciullo per eccellenza», è la figura che chiude il viaggio di questo libro e solo alla fine ci si accorge di essere stati “trasportati” in ludere dalla sua “macchinazione”.
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