I controversi rapporti russo-turchi e l'evolversi della politica turca fra modernità e tradizione sono i due grandi nodi storici su cui Orlando Figes e Charles King gettano nuova luce, il primo occupandosi della guerra di Crimea, qui da noi di solito letta in una prospettiva impoverente, perché italocentrica, il secondo con l'analisi della transizione dall'impero ottomano alla repubblica kemalista, quando il ricordo della pur vittoriosa ecatombe viene insabbiato dai turchi stessi come una vergogna collettiva. La Crimea è decisiva perché, fra 1853 e 1856, provoca una frattura tra l'impero asburgico e la Russia, dove lo zarismo si avvia al capolinea; apre la strada al sorgere di tre stati nazionali (Italia, Romania, Germania); coinvolge per la prima volta i turchi in un conflitto europeo. Non a torto quindi Orlando Figes, già autore d'importanti studi di storia russa, dedica molte pagine alle cause del conflitto, arricchendole d'un prezioso corredo iconografico, cosa che accade anche nel testo di King. La scena da cui egli muove per spiegare l'origine della guerra si svolge a Gerusalemme, dove nel 1846 stuoli di pellegrini cristiani di rito latino e greco danno luogo a una rissa colossale. Quasi un casus belli per i russi, pronti da tempo a intervenire per difendere il santo sepolcro ed espandersi verso sud (progetto avviato da Caterina a fine Settecento, con un impressionante corollario di persecuzioni ai danni dei musulmani del Caucaso); nell'arco di pochi anni, auspicando la condiscendenza degli Asburgo, che invece non gradiranno affatto l'irruzione delle armate russe sul delta del Danubio, Nicola I, adepto del panslavismo di Michail Petrovič Pogodin, si convincerà di dover attaccare il malato impero ottomano. L'area, nota Figes, è da tempo tornata sotto i riflettori occidentali. Intorno al 1820 l'insurrezione della Grecia ha dimostrato l'arretratezza e l'efferatezza dell'esercito turco, scatenando le proteste sia della lobby greca alla corte di San Pietroburgo, sia, dopo il massacro di Chios, dei circoli liberali d'Europa. Reazioni analoghe hanno determinato le torture in seguito inflitte dalle guardie russe alle monache cattoliche di Minsk, sennonché i russi sembrano più minacciosi per l'Europa, e in prima fila tra i loro nemici si trovano gli inglesi. Questi non solo appaiono confortati dai pur esili sforzi modernizzatori degli ottomani, giudicando inoltre l'impero come una garanzia di stabilità nell'area, ma da un lato decidono di occupare l'Afghanistan quale argine contro i russi, dall'altro sperano di ingenerare nel loro impero una guerra di nazionalità. La loro russofobia è del resto notoria. Perfino quando lo zar si presenta alla corte della regina (1844), illudendosi di poter suggellare un'alleanza grazie ai buoni rapporti personali, il Parlamento, la stampa e la corte inglesi continuano a prestare ben maggior fede ai presunti progetti segreti contenuti nell'aggressivo falso Testamento di Pietro il Grande. Così, fra avventatezze diplomatiche e provocazioni, poco a poco si scatenerà la guerra: tutti contro la Russia, compresi il regno di Sardegna e Napoleone III, che intende compattare la sua Francia appena tornata impero. Costellano l'ultima parte del libro, fino alla ricostruzione delle trattative di pace, alcune grandiose scene corali, con carneficine e malattie, punteggiate a intervalli quasi regolari dalla sublimazione dell'orrore nelle pagine già perfette di un superstite, Lev Tolstoj. Turchia, qualche decennio dopo. Fine della prima guerra mondiale. Tacciati di arrendevolezza verso il nemico europeo che occupa ormai le città turche, gli Ottomani vengono spazzati via dai loro sudditi. Si impone un movimento laicista e repubblicano guidato da Mustafà Kemal. Su tale scenario, dopo un'impennata di nazionalismo e la fuga di molti occidentali dalla Turchia, procede quello che King definisce un autentico "rullo compressore", con il potere carismatico del leader, la repressione delle attività religiose, le settecento condanne a morte e i settemila arresti, ma anche i circoli di discussione, l'ampliamento degli orizzonti culturali, lo sbarco sulla scena pubblica delle donne: solide fondamenta di un nuovo modello di sviluppo. Per illustrare tali dinamiche, Charles King, docente a Washington, adotta un approccio socio-antropologico, rievocando quel mosaico di culture in parte tratteggiato anche da Figes nella sua rassegna delle truppe; ciò implica un complesso lavoro di scavo che, in pagine splendidamente orchestrate sotto il profilo narrativo, fa affiorare dalle profondità della storia figure singolari, come quella di Thomas Whittemore, educatore dei rampolli degli esuli russi, o di Halide Edip, da eroina della rivoluzione a giramondo disillusa. Daniele Rocca
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