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recensione di Fo, A., L'Indice 1998, n. 7
Si ha un bel discutere, reclamare (ma sarà così d'obbligo?) un ridimensionamento, prendere le distanze dall'algebrico virtuosismo sperimentale via via fomentato in Antonio Pizzuto dal suo scopritore e mentore Gianfranco Contini: resta il fatto che c'è sempre molto di bello e di profondo da imparare quando - e per l'ultimo Pizzuto certo non senza impegno - si legge una sua pagina. Ne sono perentoria conferma i due romanzi segreti che dopo inenarrabili peripezie editoriali Antonio Pane è ora riuscito a far riaffiorare simultaneamente dalle penombre dei cassetti, con dovizioso corredo di apparati filologici e bibliografici. Si tratta di "Rapin e Rapier" (1944-48; l'autore voleva i nomi accentati - Ràpin e Ràpier -, per inibirne la pronuncia alla francese), intestato ai personaggi che allegorizzano Mussolini e Hitler; e di "Così" (1949-52), "poema della vecchiaia", come Pizzuto lo definisce in una delle preziose lettere scambiate con il compagno di studi e scrittore Salvatore Spinelli: carteggio che lo stesso Pane è riuscito a recuperare e ha presentato in tutta la sua ricchezza in un importante saggio sugli "Annali della Facoltà di Lettere dell'Università di Siena" (1997, n. 18). E va rivolto un sincero grazie alla sua ostinazione, ispiratagli da un credo corroborato da profondo amore; nonché a quella di Renzo Martinelli, generoso sostenitore della causa pizzutiana, e a Maria Pizzuto, animatrice della Fondazione intitolata al padre e autrice di una prosa di ricordi che arricchisce il volume degli Editori Riuniti.
Entrambi gli inediti risalgono alla prima fase della scrittura di Pizzuto. Fase già proiettata verso una rosa di innovazioni formali: "Rapin e Rapier" è già attivo sulla via della rinuncia all'unità narrativa; "Così" bandisce i dialoghi fra i personaggi e si presenta come un "continuum" che ontologicamente esclude l'a capo. E tuttavia Pizzuto vi si mantiene ancora al di qua delle future rivoluzionarie oltranze sintattiche. A dominarvi sono, rispettivamente, la sarcastica satira e un'immedicabile malinconia.
Il saturnino "Così" compare presso l'encomiabile editore Polistampa di Firenze (lo stesso che pubblica fra l'altro la bella rivista diretta da Mario Graziano Parri "Caffè Michelangiolo"). Il titolo è già un minuscolo capolavoro: un unico telegrafico avverbio condensa principi tecnici e risonanze sentimentali. S'intitolava "Così" il testo di un arioso per soprano scritto dalla madre di Pizzuto e musicato da un Salvatore Minà i cui profili si riflettono nel romanzo (Pane offre l'anastatica del testo in appendice, insieme a molti altri importanti tasselli dell'"Officina del romanzo"). E "così" si snoda la vita, colta da un punto preso a caso: le peregrinazioni di un pensionato attraverso la ricerca di un'occupazione e l'intreccio della sua con mille altre piccolo-grandi esistenze. Il nome del protagonista s'impasta di rettitudine, preistoria, torture (quelle dentistiche, che assillano i più e si quintessenziano nell'agghiacciante film "Brazil"): Ortodonte.
"Così" è la realtà, nel suo precipitare e spostarsi trasfigurandosi, in ossequio al "clinamen*, anche laddove manchino scarti eclatanti. E per questo rispetto è un libro magistrale. Pizzuto non vi ricerca l'avvincente progresso di trama, che sarebbe come a dire un'antologia di episodi trascelti e tendenziosamente ordinati. Bensì uno spaccato su tutte le trame, il segmento che sia già in sé un'epitome del cosmo. Nel giro di una pagina scorrono generazioni, muta incessante il disegno dei fatti. Siamo a una narrazione allo stato puro, un occhio-scanner passato su una zona di vita seguendone le articolazioni più infinitesimali dell'essere e del divenire. Nella rete resta di tutto, dalla depilazione di un senile mento muliebre a mezzo pinzetta fino all'involontario tramandare che vi fu un'era in cui ciascun tram s'insigniva di accidiosi bigliettai. Il tutto punteggiato di sentenze tagliate nella viva carne dell'essere (come: "Il dolore che si ha per le sofferenze di una persona cara le supera perché queste hanno un limite che esso non sa stabilire") e finanche di fulminei pronunciamenti estetici (quale quello sull'arte sostanza-forma a pagina 48). "Così" (e l'efficace saggio introduttivo di Pane lo chiarisce) è un libro di umanità tenera e penetrante, tanto toccante a volte da richiamare l'opinione di Proust secondo cui "certi romanzi sono come grandi lutti momentanei, aboliscono l'abitudine, ci rimettono in contatto con la realtà della vita" (in "La fuggitiva", traduzione di Franco Fortini, Einaudi, "I Millenni", p. 581). Ed è indifferente all'esistenza stessa chi sa restarlo di fronte al puntinismo di queste pagine, che affresca l'"epos "delle ultime sortite di un vinto prima di riconoscersi per tale. Sussulti che - ma con un più di lotta - lo allineano alla serpe dagli "occhi né supplici né ribelli" fissi in quelli dell'altra più grande che la trangugia, in un documentario in cui, come già un tempo a Leopardi nel giardino dello Zibaldone, "la vita della natura apparve quale sofferenza e nient'altro".
Totalmente diversi i registri di "Rapin e Rapier", virati al grottesco. Anche in questo romanzo Pizzuto chiama la propria prosa a un protocollo della realtà: ma è l'oggetto in sé - e cioè un mondo di rapaci teste di rapa, l'Italia fascista di gerarchi, impiegati, professori, benpensan-
ti - che con la sua ruspante grossolaneria impone il comico. L'intento ideologico è riprodurre per memoria e monito la volgarità, l'assurdità estetica e morale di una vita sprecata in traffici meschini paludati in pose, pompe, paroloni. E restano indimenticabili i fenomeni in cui ciò si sostanzia: la pacchiana onomastica (da Decàmpano a Ungulùsquibus), la "promettente pancetta" di Farropelante, la "mano grassa e profumata" del senatore Foscolino, travestimento del capo della polizia fascista Arturo Bocchini; l'arricchito Batracchi "la cui andatura non sarebbe stata diversa se ad ogni passo egli avesse respinto con un guizzo della pancia una palla di gomma". E ancora la spocchia di un foglio intestato frustrata, nell'uggiosa inerzia di un Ministero Inutile, in meticolosa confezione di una barchetta. O l'epica gestualità con cui l'Eccellenza Arcovingi va a commisurare la propria all'immensità del Danubio: e cioè il lancio di una scatola vuota di cerini e poi di un suo, più personale, sputo. Molte le pagine esilaranti, come l'"escalation* di fraintendimenti, errori, vacuità e sperperi nel puerile intersecarsi di missive dei servizi segreti. O ancora là dove con più nettezza i presupposti cialtroni del regime "rapierano" vengono tratti alle coerenti conseguenze estreme: e, in omaggio alla tradizione e alla storia, si scende in guerra con i buoni vecchi equipaggiamenti degli antichi romani (virtuosisticamente elencati), fra l'ammirazione e l'invidia dei nazisti di Ràpin.
Eppure, anche la geometria euclidea di questo mondo futile e sguaiato viene traversata da folate di incongruo sublime: come lo spasimante Giovanni, puro noùmeno foggiato dalla follia dell'invalida zia Nicradia; o lo spettacolo delle lettere che, fioccando nel colossale collettore postale in plexiglas sistemato nel grattacielo del newyorkese Waldorf Astoria, lasciano attonito il professor Fosboni. L'agghiacciante visita ai macelli di Stock-Yard si fa allegoria di una macellazione umana che resta fuori dalla diretta osservazione del romanzo, ma vi si trova collocata come in chiave, e traluce nella descrizione del campo di concentramento per come poteva venir presentato agli occhi di un gerarca alleato quando ancora non se ne conosceva appieno la natura. Proprio in quel mattatoio, del resto, Ràpin aveva un tempo lavorato come scannatore.
A ogni capitolo, il lettore subisce uno spiazzamento, pensa che inizi un nuovo e diverso romanzo; e invece poi tutte le microstorie vengono risucchiate nel buco nero dell'Era Rapierana, dove si impastano l'una con l'altra per riproporre di continuo il nodo cruciale: il problematico rapporto fra individuo e storia. Che è a sua volta parte di un tutto più complicato e inestricabile ancora: il rapporto fra individuo ed esistenza, fra individuo e cosmo, che i singoli successivi libri del questore in quiescenza, da "Così" in poi, non cesseranno di indagare, polarizzati sullo splendido desiderio che Pane ci offre estrapolato da un altro libro segreto e ancora semisommerso, "Sinfonia prima": quello di "riposare nell'unità di un'onnipervadente condizione dove origine e fine trovano conclusivo delta nel cuore autentico della vita".
Antonio Pane è nato a Caltanissetta nel 1952. Conseguita la laurea in filosofia si è trasferito con la moglie Lina a Prato e vi ha trovato lavoro in un istituto scolastico. Il suo itinerario di studioso è significativo. Muove infatti dalla semplice passione per la lettura, coltivata per anni lontano dall'accesso a qualsiasi sede in cui esprimere la propria vocazione di critico. Frattanto giungeva a maggiore evidenza la sua pregevole attività di poeta ("Rime", Lalli, 1985; "Petrarchista penultimo", La Quercia, 1986): qualche premio e i contestuali incontri facevano sì che una cerchia di amici avviasse una sistematica operazione di recupero degli scritti di alcuni autori amati. Pane ha così contribuito, per Angelo Maria Ripellino, ai volumi "I fatti di Praga" (Scheiwiller, 1988), "Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti "(Bulzoni, 1989), "Poesie 1952-78, dalle raccolte e dagli inediti" (Einaudi, 1990) e ha curato in riviste la pubblicazione di vari inediti e di un'ampia biografia ("Annali della Facoltà di Lettere di Siena", 1990 e 1991). Per Antonio Pizzuto, dopo "Lezioni del maestro, lettere inedite e scritti rari "(Scheiwiller, 1991), ha condotto ricerche approfondite, sfociate in saggi (come quello sul carteggio Pizzuto-Spinelli citato nella recensione, o il "Pizzuto a Castronovo", nei "Quaderni Pizzutiani" della Fondazione Pizzuto, Roma 1997, impreziosito dal ricco corredo fotografico di Nostrat Panahi Nejad) e soprattutto - in riviste e ora con questi due volumi - nella riproposizione di inediti. Collabora con interventi e recensioni a varie riviste fra cui "Erba d'Arno", "Oggi e domani", "Poesia".
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