L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
IBS.it, l'altro eCommerce
Cliccando su “Conferma” dichiari che il contenuto da te inserito è conforme alle Condizioni Generali d’Uso del Sito ed alle Linee Guida sui Contenuti Vietati. Puoi rileggere e modificare e successivamente confermare il tuo contenuto. Tra poche ore lo troverai online (in caso contrario verifica la conformità del contenuto alle policy del Sito).
Grazie per la tua recensione!
Tra poche ore la vedrai online (in caso contrario verifica la conformità del testo alle nostre linee guida). Dopo la pubblicazione per te +4 punti
Promo attive (1)
Nori, Paolo, Le cose non sono le cose, Fernandel, 1999
Nori, Paolo, Bassotuba non c'Š, Einaudi , 2000
recensioni di Cortellessa, A. L'Indice del 2000, n. 05
Bisogna pensare a questa prosa come a una macchina. Non una barocca apparecchiatura illusionistica, un fastoso ordigno teatrale; bensì qualcosa come la Due Cavalli scalcagnata che accompagna l'io narrante di Paolo Nori, "Learco Ferrari", nei suoi spostamenti lungo la via Emilia, a cercare un sorriso accattivante che lo aiuti a scacciare il pensiero pungente di "Bassotuba", la tipa che l'ha lasciato per un "sociologo, un allievo di Vattimo"; o a procacciare una scrittura per la scalcinata band di amici, i Bogoncelli, che hanno scoperto come il pubblico apprezzi, più della loro musica scalcinata, il modo che hanno di recitare, fra un pezzo e l'altro, racconti, "monologhi di animali", poesie "rovinate". Come quella Due Cavalli, questa prosa all'inizio stenta a mettersi in moto; ha la batteria a terra; la devi parcheggiare in discesa, la sera, per avere qualche speranza la mattina dopo; e c'è sempre il rischio che il motore si ingolfi o, come si dice, "batta in testa": che ti lasci per strada sul più bello, a bestemmiare nella polvere. Ma se acquista velocità ti prende e non ti lascia più.
Dice la leggenda che a Nori la Due Cavalli abbia finito "davvero" per prendere fuoco, l'anno scorso, poco prima del "Ricercare" di Reggio Emilia che l'ha lanciato; e mentre un tam tam sempre più insistente faceva rimbalzare il suo nome, mentre i critici si contendevano le copie del suo primo libro, Le cose non sono le cose (ora in ristampa da Fernandel), mentre la collana "Vox" diretta da Luigi Bernardi e Alessandra Gambetti per DeriveApprodi si accaparrava il secondo libro, Bassotuba non c'è, mentre si profilavano all'orizzonte Repetti&Cesari, gli editors di "Stile Libero" visti attentissimi nella Sala degli Specchi del Teatro Valli di Reggio; dice la leggenda che tutto questo, proprio sul più bello, Nori se lo sia vissuto da un letto d'ospedale. Se non è vera è ben trovata - perché rinvia alla caratteristica più evidente delle avventure di Learco Ferrari: il loro ricalcare estremamente da vicino le coordinate dell'esistenza (per quel poco di pubblico che se ne sa, per quel molto di privato che se ne favoleggia) del suo inventore. Tanto che non di "romanzi" bisognerebbe parlare, forse, ma - come nelle prove più recenti di scrittori di altra generazione come Antonio Moresco e Michele Mari - di "prosa d'invenzione biografica". Quella cioè che dal vero si discosta quel tanto e non più; e che naturalmente si arrovella proprio su quel quasi. Non a caso la fanzine di Nori e degli altri Bogoncelli (che figurano fotografati in copertina a Le cose non sono le cose) si chiama "Distrazioni della realtà": le cose non sono esattamente le cose, insomma. E allora: Learco Ferrari, come Paolo Nori, è di Parma (lo è moltissimo), è simpatizzante anarchico, e di mestieri ne fa due, con ritmo irregolare e sincopato - il magazziniere e il traduttore di testi "di servizio" (manualistica ecc.) -, l'uno in concorrenza con l'altro e insieme, coalizzati, in catastrofica concorrenza con l'unica cosa che, a Learco come a Paolo, interessi veramente: la scrittura. Perché lui è quello che si dichiara, all'inizio di Bassotuba non c'è, un "martire della letteratura": "Ho scritto un romanzo che è piaciuto molto a due editori (...) Ti chiamiamo entro fine luglio, mi han detto. Oggi è l'otto di agosto e sono qui in casa che aspetto. Non succede niente. Questo niente mi ammazza. Oppure no".
Qui, praticamente, tutto il plot. Non solo di Bassotuba, ma anche di Le cose non sono le cose. I due testi implodono infatti nel perimetro brevissimo dell'appartamento stipato di libri di Learco, o al massimo sul selciato dei centri storici, sull'asfalto livido delle periferie, nella provincia emiliana, coatti a un eterno presente - o meglio a un eterno passato prossimo, che ancor meglio rende questo senso di continua sospensione, di perpetua, inconcludente eccitazione. Una condizione di naufraga allegria: che, in mancanza di ulteriori dettagli su quanto preceda la microscopica tranche de vie qui millimetrata con cadenza da ossessivo journal intime, dà vita a un paradossale picaresco reticente ("Che io ne ho viste tante, nella mia vita, che quello che può inventarsi uno sceneggiatore hollywoodiano mi fa solo ridere").
Molta parte della critica, all'apparire di Bassotuba, ha insistito sulla particolare sonorità del dialogato di Nori, sottolineando gli echi dal comico "basso" (appunto) di una linea emiliana (Delfini Zavattini Malerba, e poi più da vicino Celati e Cavazzoni): quella cioè che ha regalato essenzialmente, alla koiné narrativa italiana, un parlato non immediatamente naturalistico bensì de-automatizzato e antimeccanico: sincopato aereo fantasioso. Inevitabile in questo contesto il rinvio al jazz (a quello "scrivere bop" di Kerouac fatto proprio da un'altra scrittrice che ha lavorato proprio a de-automatizzare il parlato gergale degli esordi, cioè Silvia Ballestra). E allora Bassotuba non è solo la storia di un autore perduto, il vorticare della lingua intorno a un'improvvisa, catastrofica assenza (si rivà alla Rosina perduta del grande Delfini); né è solo un omaggio a Cavazzoni (ringraziato in Le cose non sono le cose), alla memorabile "Vaporiera" del Poema dei lunatici. Rinvia anche, forse, a una tradizione jazz sottilmente differente dal bop, quella west coaster (la via Emilia non è del resto, cantava qualcuno, quella che porta al nostro West?) del primo cool '48-50: quello della Tuba Band, cioè, nella quale per la prima volta si sentì l'inconfondibile timbro del giovane Miles Davis: una "sonorità velata e lieve, senza vibrato, un lirismo intenso e assorto, un gusto per le frasi semplici e statiche, costruite su poche note, una predilezione per il registro medio dello strumento" (Arrigo Polillo, Jazz, Mondadori, 1995). E infatti Learco Ferrari, nei Bogoncelli, suona la tromba (anche se al modo "rovinato" che si immagina).
Poche note, certo, anche se "suonate" benissimo. Eppure ce ne dice, di cose, Nori: per esempio sulle pratiche disumanizzanti del lavoro "flessibile" in epoca postindustriale, sulle nevrosi di un sempre più diffuso proletariato colto (le scadenze di consegna delle traduzioni che si accavallano l'una sull'altra, il tempo che collassa su se stesso, che si contingenta in assai poco gioiose sincopi coatte: "Io sono stanco, anzi stanchissimo. La vita moderna ha dei ritmi e delle pretese che tenerci dietro, io non ce la faccio"). Ma la profonda, sottile malinconia che, di là dal comico di superficie, non fa dimenticare questa scrittura - una malinconia ronzante, sordinata, "velata e lieve, senza vibrato": quella che in Le cose non sono le cose si chiama "radiodown" - si accanisce di preferenza su un'altra "disgrazia" di Learco. Cioè proprio sul suo essere uno scrittore (se è vero almeno che, come ha scritto una volta Cavazzoni, "un testo letterario che si rispetti nasce in genere da qualche disgrazia; o da una condizione un po' disgraziata").
Se in Bassotuba non c'è Learco vive una condizione di disagio, infatti, non è tanto per le croniche ristrettezze economiche in cui versa. Già ha l'abitudine di conversare con la gatta (che si chiama naturalmente "Paolo"), ma ha preso pure a essere visitato da due spiriti-guida: uno malevolo (che continua a ripetergli "Sei una merda! Sei una grandissima merda che non vali niente!") e uno benevolo (che promette di sottoporre il caso letterario di Learco al "consesso dei Principi Critici Riuniti"). Ma al di là di questa parodica psicomachia resta una condizione abitata, della testa di Learco ("Allora faccio i miei giri, la banca, le poste, l'affitto (...) e nella testa ho dei pensieri che mi chiudono gli occhi, che non riesco a vedere la gente, con questi pensieri che girano per la mia testa, che mi parlo, mi parlo e non serve a niente"), che non promette nulla di buono. Tanto che, verso la fine, gli capita spesso di mettersi "a piangere come una vite tagliata". E Learco, esistenzialista pop, è davvero un po' come la "vite storta" del proverbio tedesco ricordato da Ludwig Binswanger in Tre forme di esistenza mancata per descrivere la condizione patologica della stramberia: moto ostinato che si avvolge su se stesso, che non riesce ad andare avanti, che contro un qualche ostacolo si torce, si accartoccia. A fare resistenza, qui, è precisamente quella "disgrazia" chiamata letteratura: che lo fa girare a vuoto, che ne fa un "martire". Bassotuba comincia così: "Io sono quello che non ce la faccio".
Ora però, in questa bizzarra sovrapposizione di letteratura e vita reale, la parabola ha preso una piega imprevista. È andata a finire che Learco-Paolo, invece, è precisamente quello che "ce la fa" - il suo libro è pubblicato da un editore importante, il suo minaccia di diventare il caso letterario dell'anno -, proprio come nei suoi più esaltati plazer. Era a ben vedere profetico, insomma, il titolo dello sfortunato libro di Learco, Gli ultimi giri di Learco Ferrari. Ma finito questo girare a vuoto, questo virtuosistico falso movimento, dove può dirigersi, ora, Learco-Paolo? Riuscirà la sua "vite" ad andare avanti, finalmente?
L'articolo è stato aggiunto al carrello
L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri
Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.
Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore