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Un'automobile continua a girare in tondo, intorno ad un laghetto, in un eterno pomeriggio estivo, fino a sera. Un reduce del Vietnam alla guida. Racconta a se stesso una storia che nessuno vorrà ascoltare, che nessuno potrà comprendere. E nell'insensatezza del quel girare in tondo vi è tutta la mancanza di senso della guerra, della vita. L'impossibilità del ritorno, perlomeno del ritorno quale l'avevamo immaginato, il ritorno degli eroi. "Le cose che portiamo" sono i chili dell'equipaggiamento militare, minuziosamente enumerati, è il peso dei ricordi, delle atrocità, di ciò che abbiamo scoperto di noi stessi, che avremmo preferito ignorare. Com'è essere morti, domanda il narratore, tornato bambino. "È come essere dentro un libro che nessuno sta leggendo... Un libro vecchio. Sta su uno scaffale della biblioteca, perciò sei al sicuro e tutto quanto, ma il libro non viene aperto da tanto tempo. Non puoi fare altro che aspettare. Solo aspettare che qualcuno lo prenda e cominci a leggere". Per questo leggiamo. Per questo le storie, le storie ben scritte, come queste, molto più che ben scritte, le storie ben narrate, sono importanti.
Un buon libro, che ci riporta indietro alla guerra del Vietnam, vista dagli occhi di chi partiva , scritto bene, si legge facilmente.
Recensioni
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Un classico. Tornato in traduzione italiana, nuova, dopo quasi trent’anni. Altre guerre hanno seminato e seminano odio, hanno marchiato e marchiano le vite delle persone, lasciato e lasciano cicatrici nel mondo, ma quella del Vietnam è impressa nel vastissimo immaginario del pianeta, quasi al pari del secondo conflitto mondiale. Le versioni cinematografiche hanno avuto un peso determinante. C’è però un classico, quello dello statunitense Tim O’ Brien, ribattezzato Le cose che portiamo (267 pagine, 17 euro) nella nuova edizione che si deve a Dea Planeta, che a poco a che vedere con rappresentazione, immaginazione, approssimazione e illusione di moltissimi film. C’è la vita vera, ci sono gioventù spezzate nei racconti semi-autobiografici di questo scrittore che, appena laureato, è stato trascinato nel sud est asiatico a combattere; in patria O’ Brien ha raccolto consensi e riconoscimenti, segnandone di fatto la carriera.
Questo libro, ritradotto da Carlo Prosperi, è tutt’altro che edulcorato, tutt’altro che retorico. A un certo punto spiega che in guerra: «Non c’è alcuna nitidezza. È tutto un vortice. Le vecchie regole non sono più vincolanti, le vecchie verità non più vere. Il giusto trabocca nello sbagliato. L’ordine si mescola al caos, l’amore all’odio, il brutto al bello, la legge all’anarchia, la civiltà alla barbarie. I vapori ti risucchiano. Non capisci dove sei né perché ci sei, e l’unica certezza è una travolgente ambiguità». Wow. I personaggi di un immaginario ma molto convincente plotone americano, nei racconti di O’ Brien si portano dietro vari fardelli, l’indecenza e l’orrore della guerra, ma non solo, al terrore e alla disperazione si affiancano anche il desiderio di scoperta, l’emozione e il coraggio. Condannare la guerra come il peggiore abominio è naturale, generalizzare è troppo semplice, e non ha senso, sembra voler dire Le cose che portiamo. Scritto da un veterano, che ha enormi mezzi in termini di scrittura e stile e lo dimostra quasi a ogni pagina. Come succedeva in un altro paio di suoi titoli pubblicati da Feltrinelli.
I ventidue racconti di O’ Brien (molto omogenei, quasi un romanzo) conducono il lettore nella jungla, nella notte, nelle risaie, accanto a uomini carichi di uniformi, armi, premonizioni, competizione, marce, silenzi e scaramanzie (un sasso o un collant), che aspettano lettere e pensano spesso a qualcosa che è lontano nello spazio e nel tempo. Tra calma e tempesta, e anche tra prima e dopo la guerra, non solo durante. Senza nessun insegnamento, è tutto evocato in modo magnifico, ma nessuno punta il dito per impartire una lezione a proposito di qualcosa. Tra verità e fiction, tra 1969 e 1970, la necessità del racconto prevale e, assieme a esso, esplodono le contraddizioni dell’anima, che investono un’unità di fanteria, il primo tenente Jimmy Cross (che pensa alla sia Martha, ma dopo un tragico evento ne brucerà le lettere) e i soldati Norman Bowker (che non accetterà il suo ruolo di civile tornato a casa…), Ted Lavender (ammazzato da un cecchino), Rat Kiley (che si spara a un piede) e Kiowa, la cui morte nel bagno del villaggio pesa su O’Brien, che tornerà a visitare quei luoghi in compagnia della figlia, Kathleen. Non un semplice ex soldato, O’ Brien, ma un autentico cantore di brutalità, paura e, in qualche modo, di pace.
Recensione di Giovanni Leti
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