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Anno edizione: 2018
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Trent’anni di differenza dividevano i due poeti ebrei Nelly Sachs (1891-1970) e Paul Celan (1920-1970), accomunati però da un’uguale tragica sofferenza patita durante le persecuzioni naziste, nell’esilio e nella malattia mentale. Il legame affettivo, di reciproca confidenza, ammirazione e sostegno tra i due poeti risulta evidente già dalle intestazioni delle loro lettere: “Caro poeta, caro essere umano… Caro amico… Caro fratello… Caro poeta dalle profondità meravigliose… Poeta benedetto… Paul caro… benedetto da Bach e da Hölderlin…”, esordiva Nelly. “Gentile, stimatissima signora… Cara, sinceramente ammirata… Mia cara, buona, felice Nelly…”, le faceva eco Paul. I due si scambiavano poesie, giudizi critici, incoraggiamenti, confidandosi speranze, paure e delusioni. L’incubo della guerra e della Shoah era ancora per entrambi vivissimo e straziante, così come il timore per l’antisemitismo sempre manifesto e minaccioso. Eppure, pur nella comune disperazione e nel delirio persecutorio, tutti e due riuscivano ad aggrapparsi alla certezza salvifica e consolatoria della parola poetica, al “segreto che sommessamente si dischiude… la fede in un’attività cui siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima… l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre… ” (Nelly); “C’è chi cerca il tuo sguardo – mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all’aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce!” (Paul). I due poeti arrivarono finalmente ad incontrarsi, nel 1960, prima a Zurigo e poi a Parigi, e sopravvissero in qualche modo a se stessi e al dolore per un ulteriore decennio. La morte li colse lontani, lui nella Senna a Parigi, a Stoccolma, nel 1970. L’ultimo biglietto di Celan augurava: “Tante cose liete, cara Nelly, tanta luce!”
Due anime grandi in un carteggio che, dal fondo buio e dalla lacerante grandezza umana e poetica di due esperienze, può siglare il dolore e il ricordo di questo giorno come pochi altri. Due cuori sradicati, esuli come la parola che li chiama, li imprigiona, li decide. Lei aprirà le sue lettere scrivendo: "Caro Paul Celan, benedetto da Bach e da Holderlin, benedetto dai chassidim...", o ancora: "Caro Paul dalle profondità meravigliose...". Lo sfondo è quello di due destini segnati dall'ebraismo più sentito, scossi interiormente come continui sbarchi in patrie mai familiari, e il passato, le ceneri ancora calde dell'evento che ha segnato il secolo piovono ancora sui loro pensieri come rotte d'angoscia sempre sconnesse, sofferte, irrisolte. Lui è il custode della lingua tedesca dentro l'infamia più atroce che questa abbia subito, ma dirà sempre: "Dovevo salvarla perché, per quanto fosse vero che quella lingua fosse quella di Hitler, era anche quella di mia madre". Sono lettere nelle quali lo spirito della Sachs assai spesso rincuora le inquietudini di Celan, tenta la carezza suggerendo "un continuo esercizio di pazienza", tenta l'abbraccio, la fratellanza, mentre lui è sempre stretto fra cardini ombrosi e in continua ricerca di una serenità forse impossibile. Scriverà: "Dunque, ti prego, scrivi ancora, fa che le tue cose migrino verso le nostre dita, sai bene quanto noi, e non solo noi, ne abbiamo bisogno". E in effetti sono i versi di Lei a iniettare vita e altezza lungo la tratta di un cielo troppo oscuro:"Ma la salvezza viene/ per una via diversa/ perché mai l'entrata/ può coincidere con l'uscita/ dove partenza e ritorno/ sono divisi dalla ferita insanabile della vita/ e il soffio del primo mattino/ è già risposta e dono di un'altra notte". Ansia di luce, di benedizione reciproca in ogni riga di questo magnifico solfeggio, mani giunte in una preghiera elevata a canto, ferite congiunte che cercano il proprio segreto, conficcato nel seme di versi impeccabili.
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