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È Giorgio Ficara che denuncia, in un recente convegno sulla critica (Università La Sapienza, gennaio 2008, a cura di Giulio Ferroni e Roberto Gigliucci), l'impoverimento crescente della lingua narrativa in Italia, riandando per contrasto a qualche notturno fenogliano, con un cielo mai meno che "sconquassato". Gli scrittori italiani di oggi scrivono male, o, quanto meno, scrivono peggio di quanto non si facesse mezzo secolo fa.
C'è poi una particolare maniera di scrivere, che chiamerei "alla minimum fax". È uno stile mediano, che non vira mai verso l'alto né verso il basso, per lo più allusivo di esperienze ristrette a una cerchia generazionale, sovrabbondante di metafore tra il ricercato-compiaciuto e l'inevitabile kitsch. Nel libro di Veronica Raimo uscito lo scorso autunno per questo editore (Il dolore secondo Matteo), uno dei protagonisti aveva l'espressione di "un bambino che abbia appena assistito al suicidio di un cigno". Ma già nell'antologia di qualche anno fa, La qualità dell'aria (2004), al di là di alcuni racconti di ottimo livello (come i due, pure lontanissimi stilisticamente, tra di loro e da Fenoglio, di Pica Ciamarra e Aloia), si segnalava con chiarezza questo nuovo stile, diciamo da ragazzo di buona famiglia e di varie letture (oltre che disponibilità di canali satellitari), solitamente romano, ostentatamente avverso all'ideologia di qualunque tipo e però informatissimo, colto, abile citazionista (certo, Internet rispetto a Fenoglio agevola), che si concede qualche escursione verso il basso per puro compiacimento estetico.
Così, sin dalla presentazione di questa antologia degli "otto tra i migliori narratori dell'Italia contemporanea", Christian Raimo (già autore di punta minimum con titoli come Latte, 2001, e Dov'eri tu quando le stelle del mattino
, 2004: ben poco fenogliani, si converrà), apre su "A chi frega qualcosa dell'Italia?" e, poco dopo, rivendica l'appartenenza a una generazione cresciuta a pane e fiction televisiva. Ficara scuoterebbe la testa, e stigmatizzerebbe. Però è solo la prefazione: e qui Raimo, tra l'altro, non si presenta nelle sue vesti di scrittore, ma di curatore. Sebbene, di un'antologia che si autodetermina come "atto squisitamente letterario e per questo profondamente politico".
Letterario prima di tutto, dunque. Allora, procedendo, non ci si dovrebbe imbattere in luoghi comuni, tanto per cominciare. E invece: "Se ruba la destra rubano tutti. Se ruba la sinistra, sono dei maiali comunisti". Così Alessandro Leogrande, uno degli "otto migliori", in un pezzo che si annunciava come uno dei più mordenti dell'antologia: l'inchiesta relativa al ritorno di Giancarlo Cito sulla scena politica tarantina, all'indomani della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Lo stile è quello di Gomorra di Saviano, il documento senza documentazione: dati frammisti a "si dice", senza l'obbligo della fonte, in modo che il lettore sia sempre e comunque impressionato, colpito. Ma, andando avanti, non manca la più triviale "Italia dei cellulari e dei centri estetici, dei mutui casa e degli studenti fuoricorso": Silvia Dai Pra, ancora tra i "migliori otto", procede nel reportage sul precariato femminile a colpi di tu generico: "Ti sembrava di recitare sul palco di una commedia di cui nessuno ti aveva fatto leggere il testo"; "perché poi, a furia di respirare rassegnazione, quella rassegnazione ti si attacca addosso"; per chiudere su "la tristezza ti viene quando
", a tacere di perle come "la Cina, Cristo": ci pare di vedere Ficara sempre più agitato, in perenne scuotimento di testa, mentre i cigni un po' demodè di Veronica Raimo si cambiano nelle frequenti similitudini internautiche. Così scrive Gianluigi Ricuperati: "Una faccia qualunque, ovoidale e senza capelli lunghi, come le foto che le lesbiche si passano sulle chat per combinare appuntamenti". Oppure: "Avevo la stessa tossicodipendenza da piccole cifre di denaro che hanno le adolescenti che si spogliano in webcam in cambio di una ricarica sul telefono cellulare". Non dimentichiamo che il reportage sul mestiere poco meno che illecito della riscossione crediti cominciava con un'irrinunciabile rivelazione: "Sui motori di ricerca 'prestito' vale qualche milione di citazioni più di 'fica'".
D'accordo, il libro aveva promesso reportage "di quelli che nessuno fa". Anche se poi del precariato parlava, lo scorso anno, e con molta più forza di denuncia Mi chiamo Roberta
di Aldo Nove (certo, qui c'è di nuovo il "precariato degli imam", nell'inchiesta di Stefano Liberti, e il "San Guajate" di Ornella Bellucci, omologo di "san Precario" nella realtà tarantina dell'Ilva), a voler proprio dimenticarsi che Saviano vive sotto scorta per aver fatto i nomi. Ma Raimo trova che no, nessuno prima di lui/loro. Eppure un vero e proprio doppio (calco?) di Gomorra è il reportage di Alberto Nerazzini: stesso iter criminale con identica topica (le armi, la droga, la prerogativa femminile nell'esibizione del dolore, i boss che si comportano come gli omologhi cinematografici e non viceversa), solo trasposto alla 'ndrangheta. Il tutto non esentato da una ostinata aggettivazione anti-Ficara: la scena è "strepitosa", una vicenda "magnificamente attuale", una barba "hemingwayana", fino ai legami "spaventosamente gagliardi" delle donne di mafia, in particolare della "sua Niobe senza lacrime", cui è dedicata l'inchiesta.
Di Saviano parla espressamente, peraltro, uno dei saggi più ambiziosi dell'antologia, quello di Antonio Pascale sui limiti etici nella rappresentazione estetica del dolore, che peraltro sin dal titolo, Il responsabile dello stile, può servire a chiarire (prima di tutto ai colleghi antologizzati) come lo stile stesso non sia un dato accessorio, nemmeno quando ci si sta occupando dei mali d'Italia: perché, se lo stile non è più l'individuo, è sicuramente ancora lo scrittore. Poi, per altra via, ci si può chiedere come possa Pascale, lo scrittore-uomo che dichiara di voler malmenare ogni attivista di Greenpeace paratosi sul suo cammino dichiaratamente individuale, offrire la propria collaborazione a un progetto di questo tipo, se non "anti-allegorizzando", ossia parlando di sé fingendo di parlare d'altro. E se non proprio di sé, del suo tema d'elezione: la "disoccupazione" dal dolore su vasta scala, il dolore del Mondo (ossessione contraria, a quanto pare, a quella di Ricuperati, che viceversa dichiara di "non essere abbastanza in disgrazia per poter dire qualcosa di vero sul mondo"). Un dolore persino immorale nella sua trasposizione in immagine, già secondo quel Daney a cui peraltro Pascale rapina più di un concetto e di cui ricalca svariati passaggi. Sarebbe utile, però, che egli provasse quanto meno a contagiare il mondo letterario (con la m minuscola, quindi) con la mania dello stile: perché i libri che si pubblicano oggi rimangano domani, e perché il Ficara di domani possa trovare un cielo "sconquassato" anche in un'indagine sul doping (altro pezzo dell'antologia, di Piero Sorrentino, in cui si ammicca al savianismo dell'"io so i nomi e li faccio" come elemento narrativamente autosufficiente) e, prima ancora, nell'introduzione ai prossimi "otto tra i migliori narratori d'Italia". Gilda Policastro
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