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Una tesi più che mai attuale, nonostante i 20 e più anni trascorsi dalla sua elaborazione: in un viaggio attraverso i secoli, Barbara Duden ripercorre la storia della gravidanza, della riproduzione umana e del corpo femminile e di come questo sia diventato un luogo pubblico, un involucro, uno strumento di controllo sociale che, di pari passo con la materializzazione del "feto" e della "vita intrauterina", diventa trasparente e manipolabile.
Recensioni
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recensione di Di Cori, P., L'Indice 1995, n. 4
Il libro di Barbara Duden appartiene a un genere che non è semplice individuare a prima vista. Non propriamente un saggio di storia della medicina, e neanche di etica, per quanto tratti di entrambi questi argomenti; troppo discorsivo per essere considerato un vero e proprio saggio di ricerca, anche se va decisamente collocato entro la produzione recente di storia del corpo femminile, esso costituisce piuttosto un esempio originale di combinazione di ragionamento scientifico e autobiografia intellettuale. Si sente circolare tra le pagine del libro un'aria quasi luterana, da corale di Bach, che non a caso è contemporaneo del periodo di cui Duden è una specialista, avendo pubblicato di recente una monografia sulla storia sociale della medicina delle donne nella Germania del Settecento.
L'autrice cerca di ricostruire la maniera in cui, a partire dal secolo scorso la parte interna del corpo femminile è stata progressivamente resa pubblica, visibilizzata, rappresentata, "sia dal punto di vista medico sia da quello poliziesco e giuridico, mentre parallelamente viene intrapresa la privatizzazione del suo esterno", vale a dire il suo ruolo sociale. Per fare questo Duden ripercorre in tre capitoli (il primo dedicato al corpo, il secondo al feto, mentre l'ultimo, molto breve, è sulla vita) come sia avvenuto il processo di progressiva visualizzazione dell'interno del corpo femminile e come si sia andata perdendo la tradizione cinestetica, vale a dire quella relativa alla percezione del proprio corpo interno.
Nel secondo capitolo, il più consistente, si tenta di fare una vera e propria storia del feto, e si ripercorre l'arco temporale che porta dalle immagini medievali o anche più antiche di un piccolo umano completamente formato che vive nel grembo materno, fino a giungere all'attuale macchia dell'ecografia, quel vago contorno dello zigote che per il cardinale Ratzinger è già una "persona", e per altri è di fatto "vita" fin dal primo apparire. Le ultime pagine sono appunto dedicate a discutere l'inganno che circonda il termine "vita" stabilendo le differenze storiche tra le concezioni passate e quelle attuali.
Intorno a questo nucleo fondamentale - la costruzione di un modo di vedere qualcosa che si concepisce come "vita" - Duden si sforza di organizzare le proprie argomentazioni, sistemandole lungo direttrici che non coincidono con quelle apparentemente molto urgenti ma anche molto statiche della polemica quotidiana tra abortisti e antiabortisti.
Il libro si colloca in realtà all'incrocio di alcune specifiche tradizioni intellettuali o, per meglio dire, le rivisita e riattraversa agilmente: da quella relativamente recente suggerita dall'antropologia di Marcel Mauss nel 1938 e ripresa da Mary Douglas negli anni sessanta, alla prospettiva aperta da Foucault nel decennio successivo, alla quale Duden si richiama esplicitamente fin dall'inizio, per quanto il libro non abbia un impianto foucaultiano. I referenti principali sono però soprattutto gli studi femministi sulla storia della gravidanza e del parto - penso ai saggi di Carol Smith-Rosenberg sulla costruzione della donna isterica negli Stati Uniti dell'Ottocento, e a quelli di studiose come Ludmilla Jordanova sulla cultura medica del Settecento e sul rapporto tra identità sociale delle donne e rappresentazione visiva della loro anatomia, o di Londa Schiebinger sulla storia degli scheletri.
L'altro filone importante al quale la riflessione di Barbara Duden va ricondotta è naturalmente quello del dibattito filosofico femminista. Circa vent'anni fa, Luce Irigaray ha scritto un bellissimo saggio, raccolto in "Questo sesso che non è un sesso", relativo all'economia scopica dominante tipica del regime fallocratico, alla quale contrapponeva invece la femminilità del tatto. E anche Duden vuole ricostruire "l'esperienza tattile" e "un passato tattile" delle donne.
Almeno due conseguenze importanti derivano da questa proposta così particolare sulla storia del corpo femminile. Da un lato, essa consente di riprendere, incentrandolo sul corpo, il dibattito sulla differenza sessuale e sulla ormai abusatissima categoria di "genere", e di liberarlo dalle stantie considerazioni accademiche che l'hanno appesantita. Dall'altro lato, questo libro ci dice che è ormai tempo di costruire un nuovo tipo di spazio pubblico di discussione nel quale gli/le intellettuali si collochino a una giusta distanza tra il clamore della politica, e le rigidità asfissianti dell'accademia; tra il silenzio delle case, delle biblioteche e della scrittura solitaria, e le meschinità della carriera.
Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere che, oltre a una profonda consapevolezza dei propri limiti, richiede uno spostamento preciso: abbandonare l'idea che occorra assumere sempre una posizione precisa, schierarsi pro o contro qualcosa, che sia possibile trovare subito uno schema esplicativo entro cui sistemare definitivamente una realtà o un problema (pensiamo agli sterili dibattiti tra intellettuali che hanno seguito i risultati delle elezioni di marzo, o quello ben poco stimolante a proposito delle cosiddette donne di destra al governo). Duden sostiene che dobbiamo lasciarci alle spalle alcune vecchie idee con le quali avevamo convissuto pacificamente per tanti anni, e considerare che forse tante domande alle quali fino a poco tempo fa presumevamo di poter rispondere e che avevamo già "sistemato" in qualche quadro concettuale definitivo, presentano aspetti inconsueti, che forse non conosciamo affatto. Il libro di Barbara Duden è un esempio felice di questo tipo di operazione, che è decisamente politica, oltreché intellettuale: un invito da accogliere senza riserve.
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