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Anno edizione: 2008
Anno edizione: 2010
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Molto più alte le aspettative che l'esecuzione effettiva dell'opera. L'impostazione è un po' troppo formale, il linguaggio troppo "politico" e spersonalizzato, tanto che nell'opera si vede quanto più l'editore che l'autore.
Recensioni
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Ci sono almeno due modi per collocare l'ultimo libro di Gregotti. Il primo, più immediato, è posizionarlo entro la recente discussione sulle condizioni dell'architettura, giudicata dai più disciolta entro un sistema di segni e differenze. Quel "sistema di consumo" intravisto quasi quaranta anni fa da Baudrillard che ha reso obsoleta, di colpo, la stessa formula situazionista della società dello spettacolo, intrisa di economicismo e marxismo, a vantaggio di un galleggiante sistema di segni relazionati reciprocamente. È questo (a quasi quaranta anni dalla sua formulazione) lo sfondo dell'attuale discussione sull'architettura: parvenza più che sostanza di pubblica discussione. Costretta entro pochi temi tra i quali si muove agilmente: grattacieli, modernizzazione, speculazione, immagine. Facile campo per la denigrazione. E per il rispecchiamento populista di posizioni che imputano ogni male all'architettura. La scelta, che si immagina editoriale, del titolo mette il libro in una poco generosa tensione con altri pamphlet. Dei quali vale dire solo che siano stati di largo successo.
Un secondo piano di lettura è più interessante e posiziona il libro in rapporto a una domanda, solo apparentemente vicina alla discussione sopra richiamata: nella liquefazione di tutto, che ne è dell'architettura? Poiché l'architettura, come altre discipline, ha una storia, una tradizione. È soggetta a mutazioni. Può perdere la sua necessità sociale, cambiare natura, trasformarsi. Può morire, come direbbe Spivak, autrice che non trova accoglienza in queste pagine. Che ne è oggi dell'architettura? Può una pratica artistica, come ama definirla Gregotti, sopravvivere alla morte delle grandi alternative, del sogno della durata, della perdita della totalità, della fine della storia? Cioè alla fuga dalla modernità, per come è stata ridefinita entro un dibattito ricco e importante, avviato negli anni ottanta, il cui merito maggiore è stato di evidenziare la profondità della crisi che (per Gregotti e non per altri) si protrae ancora oggi?
Su questo secondo piano, già affrontato in passato da Gregotti, il libro si propone come ragionamento racchiuso da due parti che, rispecchiandosi, trattano della teoria del progetto e dell'identità della disciplina. Rispettivamente il primo e il quarto capitolo. Al loro interno, l'esplorazione delle condizioni attuali è demandata a un discorso sull'interdisciplinarietà e sulla produzione dell'architettura.
Teoria del progetto. Il concetto di teoria non gode attualmente di molte attenzioni. È guardato con sospetto. Rimanda al fare come la storia, la critica e l'estetica rimandano al giudizio e all'interpretazione. "Vorrei affermare scrive Gregotti l'esistenza e la necessità di uno speciale piano teorico del fare architettura, un piano dialogante, distinto non solo da quello delle altre arti, della scienza, della filosofia, della storia, ma anche da quello del giudizio estetico sugli esiti del fare. Un piano che non dimentica ma congiunge la specificità delle condizioni storiche soggettive e oggettive alla necessità (della) trasformazione". Ovunque è sottolineata nel libro la necessità del confronto critico del fare con il mutamento. L'insoddisfazione per ogni sguardo solipsistico. L'idea che esito del fare sia una nuova cosa capace di proporre un diverso punto di vista sulla realtà. È il corpo a corpo dell'opera con le condizioni entro le quali si dà. Ciò che Gregotti designa come atteggiamento critico. Nessuna benevola trasmissione. Nessuna deduzione. Ma una tensione. Qualcosa che non può essere anestetizzato.
La posizione non è acquietante. Non lo è mai stata. E queste pagine sono quelle aspre di sempre. Con il piacere, appunto, dell'inattualità. Inattuale è il concetto di teoria del progetto. Inattuale è il richiamo a un "atteggiamento critico (
) che proviene dalla tradizione di una parte della prima avanguardia e dietro di essa da quella di un illuminismo capace di autocritica (ma anche di fraternità) rispetto alle idee di progresso e di razionalità che esso stesso aveva messo in campo".Il riallacciarsi alla tradizione della modernità e alle sue radici illuministe è sottratto dall'angoscia dell'influenza. Visto piuttosto come qualcosa che può offrire ben oltrel'invenzione di un nuovo linguaggio, "qualche ulteriore indispensabile illusione: un progetto di rifunzionalizzazione della razionalità e della tecnica alla liberazione dell'uomo, e all'uguaglianza delle opportunità".Una modernità, in altri termini, non liquidabile. Non a caso il libro si chiude con l'affermazione, sempre richiamata, di Adorno del 1965: "Un'architettura degna dell'uomo deve avere degli uomini e della società un'opinione migliore di quella corrispondente al loro stato reale". Quasi una messa al riparo da improbabili fraintendimenti.
L'identità della disciplina.L'architettura rimane, nelle nuove condizioni, essenzialmente costruzione: ha a che fare con la morfologia e la tettonica. Sebbene debba confrontarsi con la dilatazione e la mobilità dei suoi confini, del campo, dei materiali entro i quali si costituisce, nondimeno mantiene un suo campo specifico. Ragionare sulla specificità e sulla distanza tra discipline è, per Vittorio Gregotti, cruciale, a fronte dell'attuale confusione tra linguaggi. L'identità è consapevolezza di reciproche distanze e del senso del proprio fare. È da qui che si misura tutto: questioni, tecniche, materiali, rapporti con le condizioni che appaiono al contempo avanzate e barbariche. Segnate da strappi apparenti più che reali e da un eclettismo degno della seconda parte del XIX secolo.
Un'inusuale tempra di conservatore, quella di Gregotti, che richiama spesso la sua appartenenza a una generazione di transizione ancora capace di memoria rispetto a ciò che è andato perduto. Capace di scagliarsi contro le ambiguità di chi rimane sospeso tra la constatazione di nuove condizioni e l'entusiasmo per una presunta libertà che queste lasciano trasparire. Capace di cogliere, lacanianamente l'impotenza dietro l'entusiasmo nelle difficoltà di autentici passages à l'acte. Di scagliarsi contro la correttezza politica soffocante di questi tempi, contro la quale far propria l'inattualità come vantaggio. Non c'è per Gregotti una "scuola del Risentimento", con la quale prendersela. Ma tanta diffusa imbecillità contro la quale riproporre il richiamo fondativo alla tradizione del moderno. Un'idea anticlassicista di tradizione fondata sul confronto e sulla discontinuità anziché sull'ordine. Sulla lotta il cui premio è la sopravvivenza dell'architettura. In un momento in cui il legame con quella tradizione sembra ai più evaporato del tutto. Ed è questo il punto. Poiché la sua è un'aspirazione a fare, entro una "circostanza", come avrebbe detto Ortega y Gasset, in cui quel modo di fare non c'è più. Un ideale rivolto al passato che chiama in causa la domanda: cosa stiamo facendo?
Cristina Bianchetti
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