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recensione di Scarpa, D., L'Indice 1996, n. 7
Esistono libri che sono importanti non per la loro forza di novità, ma per il fatto che ricapitolano una storia già nota e mai raccontata per intero.Sono i libri nei quali abbiamo l'impressione di leggere per la prima volta cose che credevamo di sapere a memoria.Negli ultimi anni molti tra i nostri poeti più anziani (Bertolucci, Fortini,Giudici, Luzi) hanno scritto libri di questo tipo, libri semplici, essenziali e definitivi che fin dai titoli suonano come un consuntivo, se non un congedo.Ma questo "Congedo" è stato scritto da un poeta di quarantatré anni: come la mettiamo?
Il "Congedo" di D'Elia è il libro di un uomo che sta oltrepassando la sua personale linea d'ombra e ha scelto il bagaglio che dovrà portare dall'altra parte, la "memoria vivente del passato" di cui dovrà nutrire il suo futuro.Porterà con sé il ricordo di FrancoFortini, "uomo d'umore e riscatto/ sì acuto ed offeso". Di Pasolini e Fellini, "poeti entrambi d'un tempo scaduto?".Il ricordo degli amici morti e di tutta una schiera di miti personali: da Marilyn Monroe alla fisionomia di anni descritti come visi di persone care.Infine, e soprattutto, il mito personale che dà il titolo al libro: la vecchia macchina per scrivere "Lettera 32", così battezzata proprio da Franco Fortini, che tra il 1948 e il1954 fu il copy (diremmo oggi) dell'Olivetti.Sui suoi tasti Gianni D'Elia ha battuto poesie, volantini politici, sfoghi civili e amorosi, la tesi di laurea: "quanti sogni arsi/ in incipit di romanzi spenti, autodafé, // falliti racconti, versi da rifarsi, belli / quanto amore spuntato sui tuoi denti".
È qui che si ha quell'effetto di straniamento di cui parlavo all'inizio.Questi versi evocano un passato degno d'amore.Evocano l'Olivetti, mitica azienda nella quale dietro ogni porta d'ufficio trovavi un romanziere o un poeta (dov'erano nascosti gli operai?). Un "padrone" a sua volta mitico, un grande borghese illuminato che propugnava un modello di società che aveva la sua prima attuazione e il suo microcosmo nell'azienda.Ma che cosa rimane di quella passione in un'azienda che oggi troviamo solo nelle pagine economiche e politiche dei giornali, azienda e centro di potere in odore d'impoetico assistenzialismo?
D'Elia non ne parla ma non elude queste domande. Non per niente la sezione centrale del suo libro s'intitola "Su orme incivili", ripresa delle "Poesie incivili" di Pasolini. Non per niente la sezione finale s'intitola Pesanteur du temps.Sono versi efficaci e ben martellati sulla nostra "ebetudine cinetica", sull'"epica forfettaria" di cui godono gli eroi e i divi di un giorno solo, sulla bruttezza morale e materiale di questo paese in cui "ognuno di noi è gli altri, cinico, goffo, italiano".
Bob Dylan, più volte evocato nel libro, aveva un bell'aggettivo per le canzoni impegnate sì ma troppo in bianco e nero: le chiamava fingerpointed songs, canzoni col dito puntato.Di un tale volontarismo etico e poetico ci sono molti indizi nel libro di D'Elia.Per esempio, l'andamento prosastico affidato alle troppe rime "facili": avverbi, infiniti, participi passati, gerundi. (Ma in compenso queste rime conferiscono al testo un gradevole tono d'epoca.D'Elia scrive le sue quartine come pedalando in bicicletta, con un tono di cantilena stonata che ricorda "Azzurro" di Paolo Conte cantata da Adriano Celentano).All'estremo opposto troviamo invece versi troppo affollati d'immagini e di concetti; per usare le parole dello stesso D'Elia, "cementi fitti in cui non ci si vede".
Ma il suo segno più caratteristico sono quelle forme frequentative che vorrebbero stipare a forza dentro le parole una maggiore potenza espressiva: ondìo, grigìo, lumino, sgommìo, scodìo, lagno, urtìo, parossìo, melìo.Perfino brusìo porta l'accento sulla i. Per questi motivi le poesie civili più belle sono anche quelle più indirette, come "Totale", dove l'interminabile anaconda di carta sputata dai registratori di cassa si fa figura della dissipazione di merci e di energie nervose su cui si fonda la vita sociale. O i versi antibucolici che evocano "l'esistere comune / sotto gli alberi urbani mossi dal vento". Per D'Elia la vita (e la Sinistra) non sono altro che questo, una ginestra che continua a fiorire in un ambiente inospitale e malsano.
Quale conclusione trarre da tutto ciò?Sembrerebbe che la memoria vinca la passione civile.In realtà non è esattamente la memoria a vincere, ma piuttosto un inquieto sentimento del tempo.A volerne dire il nocciolo, questo libro è un libro sul tempo.Il tic tac della macchina per scrivere non è altro che il tic tac del tempo.Il tempo che passa e rovina le cose.Il tempo che intercorre, che passa tra una cosa e un'altra cosa, tra l'intenzione e l'attuazione, tra l'idea e il battito delle dita sui tasti.Il tempo che dà un ritmo all'idea, ma mentre le dà forma la deforma.Il tempo che è il muro messo tra la spiga e la mano.Il tempo che ti fa perdere il bel pensiero che avevi.Il tempo che s'interpone tra un'idea di società e la sua realizzazione: "e oggi nient'altro che il frammento / sembra ci sia dato per istanti, / tu pure tentalo, se puoi, come tanti / durando un poco oltre quel vento...". Così la vecchia macchina per scrivere parla al poeta che l'abbandonerà per uno schermo luminoso e pulsante (sarà Olivetti anche quello?).Forse è proprio da qui, da questo tempo privato e civile ridotto a brandelli, che potrà ripartire la bicicletta poetica di Gianni D'Elia.
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