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Come è passato il tempo dà conto di un lungo percorso, quarant’anni di ricerca poetica ammirevole, caparbia, silenziosa e ora capace di stupire per la sua intima, coraggiosa coerenza. (Fabio Pusterla)
La voce, sì quella l’ho sentita.
Una delle voci care, smentita
dall’inesorabile friabile nonvita.
Il titolo di questa ampia e tesa autoantologia suggerisce subito due cose: la dimensione temporale come asse portante del libro, e l’escursione linguistica, dal basso del parlato quotidiano ai registri più alti, e sempre tuttavia secchi, esatti, privi di compiacimento. È con questa parola che rifiuta ogni orpello e che si apre alla quotidianità che l’autore attraversa il tempo, o meglio le sue varie declinazioni: il tempo soggettivo (“Clima e affanni, scadenze / sui calendari, questa lima”), quello storico, e l’altro, più vasto e sfuggente, che riguarda il farsi e disfarsi della vita, del pianeta, del cosmo. Nulla tuttavia è disposto lungo un asse ordinato e rassicurante: l’epicentro sarà certo il presente devastato, azzerato nella sua dimensione progettuale e utopica, preso d’assedio dalla mercificazione di ogni cosa. Ma da questo luogo minaccioso e minacciato l’esplorazione della poesia innesca una dialettica non facile tra le varie dimensioni del passato e l’orizzonte a noi murato del futuro, che pure dovrà esistere: “Le speranze e le piccole illusioni / chiudile in una busta e nascondile / nel giardino o in un bunker / per quelli del tremila. / Gli eredi non saranno teneri con te”. (Fabio Pusterla)
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