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Staccarsi dal passato farà male? Il sole in febbraio, l’insolita morbidezza del vento e i filari di palme lungo l’aeroporto di Marsiglia confondono Silke, creando un’incertezza che il volto svela, manifestando lo stato d’animo di chi non sa: l’agitazione di chi cerca.
È vestita di lana: ha caldo e il passato che si è portata al seguito rende le sue valigie pesanti e faticose. È vero, per arrivare in città potrebbe prendere un taxi, ma è una scelta che avrebbe fatto suo padre: e lei è stanca di imitarlo. Dunque cammina verso la stazione degli autobus fino a raggiungere il gabbiotto della biglietteria.
«Sola andata?» le domanda una ragazza con le unghie smaltate di celeste.
Silke rimane in silenzio.
Non si aspettava una domanda del genere. Ha bisogno di pensarci su, ma la bigliettaia è impaziente: «Sola andata o anche il ritorno?» chiede di nuovo, a voce più alta.
Silke si volta. Come se i viaggiatori, in fila dietro di lei, potessero aiutarla: cerca un suggerimento, un consiglio, per dare la risposta giusta. Ma la risposta giusta non c’è. La bigliettaia vuole soltanto sapere se lei ha deciso di trattenersi a Marsiglia oppure no.
Ed è proprio allora: è in quel momento che Silke trova il coraggio di pronunciare due parole ordinarie per tutti, ma rivoluzionarie per se stessa. «Sola andata» dice osservata da cento occhi: e subito sente la libertà accelerare il battito del cuore e raggiungere in fretta le dita delle mani: per indebolirle, come sempre fanno le grandi emozioni.
Poco più tardi, sull’autobus, Silke sceglie di sedersi lontana da tutti: non ha il coraggio di mischiarsi, preferisce restare sola come un’isola che la distanza protegge dagli altri.
L’autista, intanto, comincia a guidare. Sembra ubriaco. Impreca contro i semafori rossi, corre: e quando un automobilista gli taglia la strada la frenata è talmente brusca che il portellone del bagagliaio cede, spargendo lungo la strada zaini e valigie che a decine si aprono disseminando fra i veicoli in corsa scarpe, pantaloni, rossetti, biancheria intima, spazzolini e collant.
Dal finestrino, Silke guarda incredula tutta quell’intimità profanata sfilare disordinatamente sull’asfalto. Ha paura, ma segue comunque il flusso allarmato degli altri passeggeri e, con una tenacia da guerriera, recupera le sue valigie: rovinate dall’impatto, ma per fortuna ancora chiuse.
Nel frattempo, l’autista alza le mani al cielo, bestemmia, aiuta chi più ha bisogno e, quando tutto è nuovamente a posto, torna alla guida e riparte. Alla radio, le canzoni di Charles Trenet si susseguono come se nulla di grave fosse accaduto.
Silke è terrorizzata: ma in che razza di posto è finita? Perché ha scelto di fuggire proprio a Marsiglia e non, invece, a Parigi o a Saint-Tropez?
Nel suo Tirolo, tutto accadeva e riaccadeva ogni giorno con sistematica e rassicurante esattezza. Il destino, ostaggio dell’abitudine, domato dalla disciplina e ammansito dalla ricchezza, se ne stava in letargo: e raramente si svegliava. A Marsiglia, invece, in pochi minuti c’era già stato uno sfacelo al quale – di certo – ne sarebbero seguiti altri.
Sì, ma quanti? E quanto gravi?
E pensare che, fino a poche ore fa, Silke si trovava ancora a Innsbruck circondata dalle precauzioni e dal lindore, in un aeroporto giocattolo, apparentemente sicuro e perfetto, ma indebolito dai capricci del vento Mangianeve e dalla brevità della sua pista: un’insidiosa striscia di cemento proibita agli aerei più grandi, limitata dalle case, soffocata dalle nuvole e attorniata da montagne troppo alte.
Servono intuizione, talento e un’abilità certificata per poter atterrare a Innsbruck.
Il decollo richiede, in più, coraggio e incoscienza. L’ascesa è talmente rapida che i passeggeri si sentono astronauti e il pilota un acrobata con poco tempo a disposizione per superare le cime innevate davanti a sé. Mentre lo fa, tutti rimangono in silenzio: si aggrappano ai braccioli delle poltrone, irrigidendosi come se l’immobilità fosse davvero utile a prevenire le catastrofi.
Nel frattempo, soltanto i bambini ridono e si divertono. Loro non sanno del più grave disastro aereo nella storia dell’aviazione austriaca: del volo 802 e di tutte le vite che il monte Glungezer ha già preteso per sé.
Poco prima di partire, sulla terrazza panoramica dell’aeroporto, Silke si ferma a contemplare il bianco, il verde e il grigio: i tre colori di Innsbruck. Accanto a lei il vecchio campione di Formula Uno con il volto sfregiato e la pelle irrigidita dal fuoco tiene stretta fra le mani una tazza rossa piena di caffè. Silke lo guarda: pensa che se ce l’ha fatta lui a ricominciare, lei pure riuscirà a inventarsi una vita nuova.
È bene, in fondo, che il suo bagaglio contenga soltanto un millesimo di ciò che è stato. Al resto Silke ha dovuto rinunciare: i dobermann lucidi del padre, il caminetto acceso contro la costanza del gelo, i tappeti scuri, le pareti ricoperte di legno, la colazione alle sette, la cena dodici ore più tardi, il grembiule a striscioline bianche e celesti della cameriera, le mani di suo padre (inutilmente enormi), le labbra di sua madre (gonfie di giovinezza rimpianta) e la loro sfacciata villa museale, regina di un quartiere senza negozi: pieno soltanto di giardini, resi sterili dall’invadenza dell’inverno.
Fa freddo mentre i passeggeri raggiungono a piedi il loro aeroplanino. Silke cammina più lentamente degli altri. Si attarda. Si volta e guarda ciò che sta abbandonando: i suoi ultimi passi prima di staccarsi da Innsbruck, dal Tirolo e dall’Austria percorrono cinquanta metri di asfalto nerissimo che la neve trasforma in stracciatella proprio quando lei li attraversa. Un saluto: anzi, una carezza.
«Andrà tutto bene» sussurra Silke nell’accorgersi che il destino le ha riservato a bordo un posto in prima fila per assistere alla partenza.
Poco più tardi, la hostess comincia a recitare muta: soffia nel tubo di gomma del giubbotto di salvataggio, mima reazioni calmissime a catastrofici possibili eventi.
Silke la guarda. Sa bene chi è. Ricorda di averle tenuto la fronte, durante una festa liceale, mentre vomitava a causa del troppo alcol. La hostess se ne rende conto: infatti, quando prende in mano il sacchetto per il malessere e lo mostra ai passeggeri, si imbarazza.
Poco dopo l’aereo decolla.
Silke chiude gli occhi. Preferisce affidare al buio l’istante dell’addio. Spera di oltrepassare in fretta i monti che la circondano: prova a sostituire la nostalgia della partenza con l’impazienza dell’arrivo.