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Il cogito e l'ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur - Domenico Jervolino - copertina
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Il cogito e l'ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur - Domenico Jervolino - copertina

Dettagli

1
1993
1 gennaio 1993
XVI-224 p.
9788821194665

Voce della critica

RICOEUR, PAUL, Sé come un altro, Jaca Book, 1993
JERVOLINO, DOMENICO, Il cogito e l'ermeneutica, Marietti, 1993
recensione di Perone, U., L'Indice 1993, n. 9

Per un felice caso editoriale il libro di Domenico Jervolino dedicato alla questione del soggetto in Ricoeur ("Il cogito e l'ermeneutica") compare in seconda edizione accresciuta, per i tipi di Marietti, proprio nel medesimo tempo in cui, presso Jaca Book, appare la traduzione italiana ("Sé come un altro") del più recente scritto ricoeuriano incentrato sulla tematica del soggetto. Già nel 1984 Jervolino, quando la riflessione di Ricoeur sembrava impegnarsi progressivamente per altre strade, scriveva perentoriamente che "le peripezie del 'cogito' e le sue trasformazioni ci sono parse... il centro dell'opera ricoeuriana". Seguendo una vasta serie di scritti ricoeuriani, anche minori, Jervolino punta decisamente a cogliere "l'intenzione fondamentale" della filosofia di Ricoeur; ne distingue nettamente l'ermeneutica da quella di matrice heideggeriana e ne rivendica una più ricca fecondità anche per l'azione: l'ermeneutica comincia allorché noi interrompiamo la relazione per significarla; in quanto tale, essa appartiene a soggetti finiti, che non si limitano però a "dire" l'interpretazione, ma la prolungano in azione. Quest'accezione ricoeuriana dell'interpretazione, come Jervolino mostra, comporta un lungo lavoro di analisi e di dialogo con filosofie anche alternative: lo sforzo è quello di trasformare le opposizioni antagonistiche in mediazioni (dove però la mediazione non è la conciliazione dialettica hegeliana). Una conferma della bontà dell'impianto storiografico qui schizzato (non solo a causa della ritrovata centralità esplicita del problema del 'cogito') viene appunto dalla più recente opera di impegno di Ricoeur, "Soi-mˆme comme un autre".
Come tutte le opere di Ricoeur si tratta di un testo denso e ampio (nell'edizione italiana circa 400 pagine), fitto di riferimenti tanto ai classici della filosofia quanto alla filosofia contemporanea. Un libro che ridotto allo scheletro della sua architettura, presenta non poche difficoltà a chi voglia dar conto tanto della finezza dell'analisi, quanto dell'interesse della proposta teorica. Tale via, infatti, che pure non è del tutto eludibile da un recensore, finirebbe per far troppo prevalere quell'aspetto costruttivo (a tratti anche faticosamente costruttivo) con cui, nel suo lento procedere, Ricoeur assicura ciascuno dei suoi passi, e che ne è anche, diciamolo francamente, la parte più caduca. Basti, in estrema sintesi, dire con Ricoeur che l'intero si divide in quattro (o cinque?) sottoinsiemi. Il primo è un abbozzo di filosofia del linguaggio - al tempo stesso una semantica e una pragmatica - volto, a partire dal senso più povero, a trovare risposta circa l'individuazione di quel soggetto che compare nel discorso e che si identifica come il soggetto che enuncia. Il secondo sottoinsieme è una filosofia dell'azione, ancora strettamente relata all'approccio delle filosofie analitiche, in cui dal "chi parla?" dei capitoli iniziali ci si sporge verso il "chi agisce?" che è ora al centro dell'attenzione. Il terzo, in cui l'incrocio fra tradizione analitica ed ermeneutica viene finalmente in primo piano, si concentra sulla questione dell'identità personale, l'identità di un uomo che agisce e che soffre, un'identità complessa, attraversata dalla medesimezza del sempre uguale (l''idem') e dall'identificazione riflessiva che, in una vicenda, tiene fermo a un riconoscimento (l''ipse'). Il quarto sottoinsieme, infine, percorre in cerchi vieppiù allargantisi, i temi morali ed etici di un soggetto che entra in relazione in un arduo bilanciamento tra l'autonomia del sé e la sua sollecitudine per il prossimo e la giustizia per ogni uomo. Infine, senza che Ricoeur lo enumeri tra i sottoinsiemi, l'ultimo capitolo, segnato già nel titolo da un prudente punto interrogativo, si approssima, senza pervenirvi, a un abbozzo di ontologia, che è il tema su cui il libro si chiude: "Verso quale ontologia?"
Sullo sfondo di questa mappa diviene ora possibile estrarre qualcuna delle questioni che segnano l'intero percorso e che mi paiono suscettibili di discussione. Lo farò in termini schematici in forma di tesi.
Anzitutto quella tesi portante che ha espressione nel titolo e che scandisce tre passaggi fondamentali: dell'io di ciò che l'io è, si può parlare propriamente solo passando attraverso il sé; l'identità che se ne ricava - ciò per cui il sé è il se stesso dell'io - è un'identità duplice, che potrebbe essere intesa in forma statica come un 'idem' (=essere se stesso) e in forma dinamica come un 'ipse' (tener fede a sé, come in una promessa); l'identità non è un'uguaglianza, ma un "come" che non vuole dire qui una comparazione ma un'implicanza tanto intima da valere nel significato di "in quanto". Il termine finale, decisivamente acquisito, è che la torsione per cui l'io si incontra come sé pone di fronte a un io che è come altro.
Nell'intenzione ricoeuriana, per tale via, si accetta e si trasforma la tradizionale filosofia del soggetto, poiché ci si libera da ogni pretesa di fondazione (le metafisiche del soggetto) ma non si abbandona, in nessuno dei piani attraversati, la fiducia di pervenire a un senso (possibile solo come quell'orizzonte che si costruisce e si sposta in legame con un soggetto). Pur abbandonando ogni pretesa sostanzialistica, non si può infatti rinunciare a dar risposta al problema dell'identificazione (chi parla?), dell'ascrizione (chi agisce o patisce?) dell'identità narrativa (chi è il personaggio del racconto?), dell'imputazione morale (di chi è la responsabilità?) e infine, problematicamente, delle implicazioni ontologiche (chi sono io?).
La via per pervenire a queste risposte è sempre una via della complessità (l'io è ambiguo; l'identità è atto di riconoscimento, la responsabilità comporta l'incontro con l'altro: l'affidarsi a lui e l'esserne riconosciuto, ecc.) ed è sempre una via del mantenimento (e non della risoluzione) di questa complessità: un difficile equilibrio, di cui l'ermeneutica è maestra. L'ermeneutica si trova a egual distanza - dice Ricoeur, ma dunque anche a egual prossimità - tra Cartesio e Nietzsche, tra l'autoassicurazione del cogito e il prevalere dell'iperbolicità del dubbio. L'ermeneutica è allora una medietà di estremi che non giungono a conguaglio; essa attraversa e tiene uniti, senza comporli, estremi incomponibili. Il suo progetto non è tanto diverso da quello della "Fenomenologia" hegeliana, salvo per il fatto-essenziale e ripetuto più volte, con la formula "renoncer à Hegel" - che non si dà sintesi, ne conciliazione: una medietà senza dialettica della mediazione.
L'ermeneutica è dunque alleata di una fenomenologia che esibisce la struttura intimamente ambivalente di ogni cosa e in primo luogo, di quell'io che guida la riflessione. L'io non è il sé, ma non è senza il sé; l'io è un intreccio di permanenza identica, l''idem', e di riconoscimento identificante, l''ipse'; 1'io deve passare attraverso un porsi- una sua qualche oggettualità - se non vuole essere deposto, dopo i deliri di onnipotenza dell'idealismo. L'io è squilibrato, perché per essere deve essere un sé, non più un io, ossia un altro. L'identità non è un'autoaffermazione, ma un affidarsi che di ritorno, si fa attestazione.
Il giro, sempre lungo, sempre indugiante, dell'ermeneutica trova in questo cammino la sua giustificazione più propria. Esso allora, come anche il libro di Jervolino aveva ben sottolineato, deve protendersi verso l'azione, verso una prassi della relazione buona e giusta. Sullo sfondo di Aristotele si delinea in primo luogo la sfondo della vita buona, piena della sovrabbondanza di una sollecitudine per gli altri. L'amicizia, come appunto Aristotele riconosceva, è una virtù che ben esprime la reciprocità etica; l'uguaglianza è la trascrizione istituzionale di questo atteggiamento, e ci pone di fronte a un altro che è un ciascuno. E tuttavia, come la lezione di Kant conferma, la norma interviene a interrompere un quadro troppo irenico; il primato dell'etica non impedisce l'insorgere della norma morale: il tendere alla vita buona, con e per l'altro, all'interno di istituzioni giuste, richiede anche l'attenersi alla norma morale, l'accettazione dell'interdizione morale come impegno del soggetto a non cambiare intenzione, a tener fede al proprio impegno per rispondere all'attesa dell'altro.
E tuttavia tra etica e morale vi è una dialettica che non deve trovare composizione teorica (la conciliazione) ma sbocco nel giudizio morale, che è sempre giudizio di saggezza pratica, giudizio in situazione. Le poche, densissime pagine, che Ricoeur dedica all'analisi dell'"Antigone", esplicitamente indicate come un interludio nel corso dello svolgimento della problematica morale, costituiscono forse il luogo più intenso e prezioso dell'intero scritto. Senza smentire l'andamento complessivo, che mira appunto a tenere insieme gli estremi delle alternative, queste pagine confessano che il conflitto non è componibile. L'alternativa non è solo tra Antigone e Creonte, tra le leggi della fraternità (incarnata da una donna, che non è n‚ sposa n‚ madre n‚ figlia ma sorella) e le leggi della città. Poiché entrambi, in fondo, sia pure in modo non uguale, hanno torto; di entrambi la prospettiva è troppo angusta, e perciò falsa. Ma, in certo senso, quest'angustia e parzialità non è toglibile e non vi è teoria alcuna che possa comporla. Solo una saggezza pratica, in situazione, può arrischiare una scelta, che, pur parziale, rappresenta l'equilibrio più alto che può essere raggiunto.
In queste pagine intense, segnate dalla dedica al figlio morto tragicamente, la filosofia confessa il suo scacco: la tragedia, il non-filosofico, è lì a dire ciò che la filosofia incontra sempre di nuovo, ma non può propriamente comprendere. L'ombra di Hegel, grande interprete della tragedia, si distende in queste e altre pagine, a conferma che "rinunciare a lui", alla pretesa immensa di una composizione speculativa, è sempre necessario e non è mai possibile, e a rammentare ancora che, in fondo, nemmeno in lui tutti i conflitti trovano composizione, anche se vengono alla parola.
Il rischio di eclettismo o di irenismo che accompagna il pensiero di Ricoeur (e in generale molta ermeneutica) trova in queste pagine una smentita: l'accento che in esse prevale scardina infatti l'architettura concettuale troppo barocca, perché rinnova "ancora" ("a Olivier ancora", dice la dedica) dopo il fallimento del dialogo interrotto, la parola e lo sforzo di comprendersi, ma segnando irrevocabilmente l'una e l'altro con lo stigma dell'interruzione. Di qui una nuova via d'accesso a un'ontologia che declina il tema della verità nella forma - sempre anche etica - dell'attestazione. Della verità, infatti, non è possibile una certezza autofondantesi, ma solo una testimonianza: l'attestarla come risposta a un'ingiunzione proveniente dal di fuori, dall'altro. Il nesso attestazione-ingiunzione riformula la dialettica antica di identità-diversità sullo sfondo della dimensione morale. E ha come interlocutori decisivi, e decisivamente rifiutari, Heidegger e Levinas. A Heidegger occorre obiettare che "l'attestazione è originariamente ingiunzione", diversamente smarrirebbe ogni significato etico o morale, a Levinas che "l'ingiunzione è originariamente attestazione", poiché altrimenti l'ingiunzione non potrebbe neanche essere ricevuta. Tutto ciò è come dire che tanto lo statuto dell'io, quanto quello dell'altro sono equivoci, poiché sé è come altro, secondo quanto sappiamo, e altri è, si può ora aggiungere, come sé: il loro essere (ma dunque, in generale, l'essere) è nozione non univoca ma equivoca (dove l'equivocità significa a un tempo multivocità - l'essere si dice in molti modi - e impossibilità di stringere quest'essere con perfetta trasparenza a una dizione). Con ironia, nelle ultime parole del libro si riflette su quest'equivocità, sulla dispersione che tocca (contro Levinas) anche alla categoria di alterità. "Solo un discorso altro da se stesso, direi plagiando il "Parmenide", e senza avventurarmi oltre nella foresta della speculazione, conviene alla meta-categoria dell'alterità, pena il sopprimersi dell'alterità che diventerebbe medesima di se stessa...". Si abbozza qui un'ontologia della complessità, dell'ambiguità, che rappresenta la delineazione ricoeuriana ultima di quell'ontologia che egli stesso chiama (con un'ulteriore ambiguità?) ontologia della terra promessa. Essa resta infatti sempre non posseduta; ma come intendere questa terra sempre solo promessa? come qualcosa che è davanti a noi come una meta non raggiunta, sempre inseguita ma mai conseguita, oppure, come suggerisce la Iannotta nell'introduzione, essa, piuttosto che l'inattingibile, è l'inabitabile, un luogo in cui non ci è dato stare, non per difetto, ma per la sovrabbondanza non padroneggiabile che essa simboleggia?

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