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Noioso, come pochi libri in cui mi sono imbattuta: arrivare alla fine di questo romanzo è stata una lotta improba con la mia pazienza e la mia testardaggine. Non valeva la pena di leggere queste 296 pagine scritte male, con un sacco di ripetizioni (si dice almeno una dozzina di volte che il Carso è una landa pietrosa!!), con continui e ingiustificati cambi di tempi verbali, per raccontare - senza suscitare alcuna emozione - i pochi giorni della vita di un giovane studente sloveno tornato, dopo l'armistizio dell'8 settembre, nella sua Trieste occupata dai Nazisti e combattuto tra l'idea di unirsi ai partigiani e quella di rimanere in città; giorni in cui incontra persone diverse per età ed esperienze, che lo aiutano - ognuna a modo suo - ad arrivare ad una decisione. Pensavo che la lentezza del racconto fosse dovuta all'età dello scrittore (che ha 102 anni, essendo nato nel 1913) e poi ho scoperto che il libro è stato scritto nel 1955, quando Pahor aveva solo 42 anni, ben prima di quel libro per cui Pahor è giustamente da ricordare: Necropolis, pubblicato nel 1997, in cui racconta - in modo lucido e crudo, quasi freddo - dell'esperienza vissuta nel campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof. Strano che un libro del 1955 sia tradotto solo dopo 60 anni: che abbia a che vedere con la candidatura di Pahor al Nobel per la letteratura?
Ci sono alcune pagine in cui è ben resa la condizione di sudditanza di un'etnia a un'altra etnia, e questo indubbiamente, insieme con le pregevoli descrizioni del territorio, in cui l'osmosi con la natura raggiunge anche vertici poetici, sono per me sono le parti migliori del libro, che tuttavia presenta non pochi chiaroscuri, o come si usa dire luci e ombre. Fino a ora ho detto delle luci e ora veniamo alle ombre, che non sono poche. Innanzitutto la particolare lentezza del romanzo; i dialoghi sono frequenti, ma non disturbano, anzi sono di particolare rilievo per i contenuti, ma non si può non osservare che certi concetti, peraltro condivisibili, sono propri più di persone mature e avanti con l'età e non di una ragazza diciottenne e di questo soldato fuggiasco, che studia sì Giurisprudenza all'Università, ma che con i suoi 24-25 anni non può aver maturato capacità di ponderazione ed esperienze che sono proprie (e non di tutti) di uomini molto più anziani. Quest'ultimo errore mi ha sorpreso e, se devo essere sincero, anche un po' infastidito, perchè è imperdonabile per uno scrittore esperto e affermato come Pahor. Mi trova in accordo il desiderio di libertà e pure condivido la necessità di non negare e non soffocare la nazionalità, ma, pensandoci bene, mi è venuto il dubbio che Pahor sia un nazionalista, cioè un individuo che vede in testa a tutto e a tutti la propria etnia. Non è che nel romanzo sia espresso a chiare lettere, ma una parola qua, un'altra là mi hanno lasciato più che perplesso. Il romanzo, comunque, merita di essere letto, tenendo conto però delle sue luci, ma anche e soprattutto delle sue ombre,
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