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La parola «Chinamen» potrebbe far sospettare l’uscita di una nuova saga cinematografica young adult. Non è così. Si tratta in realtà del termine con cui il mondo anglosassone, senza troppa fantasia, chiamò i primi uomini che dalla Cina migrarono verso occidente all’inizio del XIX secolo. Ora Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano è il titolo dell’ultima fatica di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte -del precedente Primavere e autunni (Becco Giallo, 2015) avevamo scritto su queste pagine- ed è, di nuovo, un lavoro sulla storia della comunità sinomilanese, così accurato e prezioso da risultare toccante. Mentre Primavere e autunni narrava la storia di Wu Li Shan (il nonno di Demonte), del suo arrivo a Milano nel 1931, del suo matrimonio con una giovane cremonese e della sua integrazione socioeconomica, con Chinamen la lente si apre fino a raccontare le storie di più individui provenienti da dieci lignaggi diversi. Ma quelli di Ciaj Rocchi e Demonte non sono propriamente racconti, narrazioni. Sono deliziosi saggi in forma grafica nei quali la voce autoriale scompare a vantaggio dell’informazione sui dati storici ed etnoantropologici, come emerge con limpidezza grazie a un uso cristallino degli strumenti della comunicazione visiva. Ogni tavola si basa sulla consultazione di documenti, foto (e sulla realizzazione di decine d’interviste): se il venditore di perle finte viene ritratto agli angoli delle strade in cappotto e borsalino, con giri e giri di collane arrotolate intorno al braccio osteso verso i passanti, è perché, verosimilmente e sulla base di fonti consultate, quello era il codice di abbigliamento e quello era il modo con cui la merce veniva mostrata («Signora, solo trenta lire!»), anziché piazzata per terra. L’inaugurazione del ristorante La Pagoda a Milano, il 3 ottobre 1962, vanta altrettanta esattezza di dettagli storici e iconici. L’evidenza offerta alla riproduzione dell’insegna dei magazzini Standa o del logo della Scicen (azienda cinese per il commercio di pelletteria in Italia) concorre a circoscrivere l’esistenza di questi membri della primigenia comunità immigrata entro la cornice storica e simbolica del commercio (e del boom economico). I vari Junsà e Yaoguang, con i loro cappotti antracite, appaiono immancabilmente dignitosi, così integrati nello zeitgeist dell’epoca (gli anni ’50 e ’60) da apparire perfino fisicamente somiglianti a un Aldo Moro o a un Enrico Mattei. Forse la storia reale della migrazione cinese a Milano conobbe più increspature, ma non si può non amare lo sforzo pedagogico e ‘progressivo’ che sembra fare da sfondo all’esposizione e ha ricordato, in chi scrive, la retorica postunitaria di De Amicis. Cosa che, nell’epoca di Matteo Salvini e della sfida per l’integrazione, non solo è benvenuta, ma assume un apprezzabile valore ideologico e didattico-narrativo. Chinamen è anche una pubblicazione collegata a una mostra sulla storia della comunità cinese locale, aperta fino al 17 aprile al Mudec di Milano. Chinamen, così come il precedente Primavere e autunni, fa pensare a un’opera apripista, che anticipa un periodo d’interesse e scoperta artistico-culturale per una comunità che è già dentro la profezia della Milano del nuovo millennio.
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