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«Il passato ha radici taglienti». Ma ora il canto può srotolare il suo mantello Daniele Barbieri 8 luglio 2007 «C'è ancora posto per la memoria?». E' la domanda che Ruth si pone dopo 33 anni d'esilio quando nell'aprile del '94 arriva la notizia che per tutti i sudafricani è l'ora della libertà [meglio: «abbiamo conquistato solo la facoltà di essere liberi... primo passo su una strada lunga e difficile» per usare le parole di Nelson Mandela] e lei può tornare. esistere «nella penombra»? [...] Uno dei libri più belli sul Sudafrica che prova faticosamente a rinascere e sulla necessità di non dimenticare: «33 anni, strana età per rinascere». Sullo fondo «un sistema diabolico nei dettagli», un intero Stato diventato un crimine mostruoso che molti nel mondo hanno cercato di nascondere e/o proteggere. Ma è anche un libro su ogni donna [o uomo] nell'esilio o costretto al silenzio in patria, che indossa maschere e parla «una lingua fuorilegge», in un perenne stato di «semi-libertà». Nelle pagine iniziali l'autrice scrive che da bambina avere incontrato «l'altro volto del Sudafrica» è stato per lei - bianca- «il privilegio più grande concessomi dalla Vita». E queste pagine emozionanti, indimenticabili fanno svanire ogni idea che in quella frase si celi retorica o esagerazione. Come altre bianche, nere, meticce] artiste sudafricane, forse persino più di scrittrici celebrate, Valentina Acava Mmaka supera la linea del colore così che avvenga il miracolo e «il canto srotoli il suo mantello».
In un testo, dove poesia, prosa e teatro si coappartengono e riprendono passi famosi - da Achmatova a Dickinson a Chédid - , l'autrice parla delle ingiustizie e delle violenze dell'Apartheid attraverso le vicende di Lindiwe che, il 27 aprile 1994 - una data «da depositare nell'immenso archivio della Memoria» - legge dell'affacciarsi in Sudafrica della democrazia e viene travolta da emozioni e ricordi: torna il passato che «ha radici di mangrovia, dure e taglienti, sommerse da acque variabili e incostanti». Nel marzo 1960, una vasta campagna non violenta chiedeva al governo di abolire la legge sul lasciapassare, che negava la libertà alla popolazione africana, ma veniva repressa in un massacro da parte della polizia con la dichiarazione dello stato d'emergenza. Di fronte alla prigione o alla morte, Lindiwe con il compagno fugge scegliendo l'esilio, che si rivela una specie di «coma» in cui la sua coscienza dorme dopo aver perso «la casa materna, la casa lingua, la casa mito, la casa famiglia». Sa che ora tutto è cambiato, ma spera, tornando in quella terra «bruciata dall'odio», di riuscire a trovare le tracce della memoria, «a costo di scavare buche profonde sotto i piedi». Dopo trentatré anni di «semilibertà» (libera di muoversi, lavorare, parlare, ma anche libera di non essere se stessa), decide di riprendere il suo posto nella nuova Storia per «saldare un conto», anche se è un «ritorno impossibile» perché è diventata Ruth perdendo perfino la sua identità linguistica: quel ritorno sarà un altro passaggio esistenziale e politico con ulteriori stratificazioni nella complessità di un Io che non potrà essere forse né Lindiwe né Ruth, ma un diverso Soggetto in cerca di un «nuovo alfabeto» per raccontare la metamorfosi. E solo la scrittura - che parla della perdita ma anche della capacità di lenire, ed a cui si può sempre tornare, nel ripercorrere il passato con i ricordi dell'altrove - ferma, e segue, sulla carta quel transito, configurando il dispatrio come una "porta girevole, porta d'uscita e insieme d'ingresso"
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