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Va reso grazie a Giulio Schiavoni per aver fissato memoria di un valente studioso che morte precoce avrebbe destinato a oblio finale, firmando in questo volume un'introduzione a prospetto dell'intera opera di Furio Jesi, nonché una biografia e bibliografia del medesimo. La bibliografia allinea 23 libri di Jesi e 18 scritti che lo concernono. Il primo dei libri s'intitola alla Ceramica egizia dalle origini al termine dell'Età Tinita (1956); gli altri invece ad autori e argomenti della letteratura europea moderna, specie tedesca, con articoli che illustrano possibili connessioni fra Egitto, Africa e Grecia antica. Un quadro che, se invero pedante, vorrebbe dare tuttavia un'idea della complessità del life work di Jesi e della maestria con cui Schiavoni l'ha ricostruito.
Life work di una mente geniale, che si guadagnò una cultura vastissima per esulare da una dura scienza delle cose quale l'archeologica vedi il libro sulla Ceramica verso una più agile storiografia, contesta di immagini e opere docu-letterarie ad esempio gli articoli su Iside in figura di kore, 1961; Aspetti iniziatici di Elena sull'apologetica pitagorica, 1961; Il tentato adulterio mitico in Grecia e in Egitto, 1963; Le Baccanti e la religione di Euripide, s.d.; tre articoli su Bes, dio egizio emerso nel Nuovo Regno, forse di ispirazione fenicia, mostruoso e beffardo, patrono della danza, musica e toletta; L'Egitto infero nell'Elena di Euripide, 1966 e infine al puro esercizio letterario vedi i libri su Rilke, 1971; Thomas Mann, 1972; Brecht, 1973, alcuni dei quali gli meritarono, come apprendiamo dalla biografia, la docenza all'Università, di lingua e letteratura tedesca.
Life work, come s'è visto, multiforme, ma nella parte qui leggibile, tutto improntato su un unico leitmotiv, additato in prefazione alla Ceramica da Boris de Rachewiltz, amico di Jesi e autore di una bella edizione del Libro dei Morti degli antichi egiziani, e dichiarato dallo stesso Jesi in uno scritto del 1958 intitolato Le connessioni archeotipiche. Leitmotiv che è in sostanza un programma di lavoro: raccogliere volta a volta due o più manifestazioni umane simili e cercare se una di esse sia valsa a modello per le altre.
Nello scritto sopracitato Jesi non revoca la storia dell'archetipo, da quello di Platone dettato dal dio, a quello definito semplicemente "modello" da Locke, a quello generato in subcosciente secondo Jung, a quello prodotto da situazione economica e sociale secondo Marx; sviluppa invece i diversi modi in cui esso può presentarsi e funzionare.
Anche, e a commento, potremmo annotare che negli stessi anni si affermò con un simile, meno impegnativo programma operativo, il comparativismo, che raccoglieva manifestazioni simili, anche se lontano nel tempo e nello spazio, per trarre dall'uno suggerimenti atti a chiarire l'altro. Inoltre, e in ordine al tema in certo modo consonante della genesi della cultura, invalse sulla scia dei miti di Prometeo e Marte e dei Grandi Iniziati autori della medesima il motto che Man makes himself di V. G. Childe.
E ancora, e per entrare nel particolare, una tesi già sviluppata da Jesi sotto titolo di Elementi africani nella civiltà di Nagada, 1957 (Nagada o Nakada è un sito dell'Egitto preistorico), è stata ripresa sotto titolo di africanità, da alcuni egittologi tra cui Alessandro Roccati dell'Università di Torino. "Elementi africani" che scaturirono dal maximum opus di Jesi su Ceramica egizia dalle origini al termine dell'Età Tinita, cui, per i lettori non egittologi, va apposta una chiosa.
Ci troviamo negli anni dal 10000 all'incirca al 2700, dall'inizio del Neolitico all'età storica e al compimento dell'unificazione dell'Egitto effettuata da sovrani insedianti nell'Alto Egitto, a This o Tinis presso Abido. Anni che conosciamo grazie a reperti archeologici, per la gran parte vasti cimiteri situati in una quindicina di siti diversi, che allineano sepolture a tumulo (poi scomparso) e fossa contenente una salma corredata di manufatti di vario genere. Tra questi figurano, sempre, vasi di terracotta contenenti cibarie. Vasi, per di più, sempre per noi conservati attraverso i secoli, e di fattura diversa da sito a sito, di forme assai belle e, quelli di certi siti, decorati con motivi interessanti, sì che si presentano oggi come indicatori principali di culture locali in evoluzione. Una rassegna dei medesimi allineata in Jacques Vandier, Manuel d'Archéologie Égyptienne, I, 1952, fu ripresa da Jesi per riscrivere l'intero capitolo.
Affinando l'analisi delle forme quasi accarezzandole e dei decori, egli ne rintracciò le suaccennate significanze a costruzione di quadri di notevole interesse. Né si basò, Jesi, soltanto sulla documentazione del Manuel; nella Biblioteca del Museo Egizio di Torino l'unica egittologica allora esistente, completa, in Italia fuori di quella nell'Apostolica Vaticana rintraccia le pubblicazioni dei ritrovamenti, e nel museo stesso esaminò i vasi di quell'epoca ivi presenti in buon numero. Il sottoscritto, allora ispettore nel museo, lo aiutò in tali operazioni; apprezzò in seguito la pubblicazione del suo lavoro, e lo esortò a estendere la sua conoscenza dell'Egitto antico per entrare, magari un giorno, nello staff dell'istituto; ipotesi mai divenuta realtà a causa della sua scomparsa.
Silvio Curto
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