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recensione di Vittori, M.V., L'Indice 1994, n. 6
Una ricerca ai margini del vuoto: così sembra configurarsi "Le ceneri del Montiferro", il romanzo ora pubblicato di Salvatore Mannuzzu. Dal vuoto un'esistenza è stata inghiottita, quella di Raimondo Quesada, e insieme una porzione di mondo, il Montiferro. Ritrovare le tracce sperdute - di un passaggio e di un paesaggio - sarà il compito dell'autore, che delinea, in apertura di storia, una sorta di mappa ed elenca, in stile teatrale, gli attori del dramma. Compare subito un misterioso personaggio, sfuggente a ogni qualifica, che dal chiuso di una "cancelleria", luogo reale e insieme simbolico di autoesclusione, caro a Mannuzzu, inserisce nella narrazione certi suoi allusivi messaggi, portatori di dubbi e dolorosi rimpianti. Tutte le strade del romanzo riconducono, in definitiva, al Montiferro: territorio sardo aspro e selvatico che conserva intatta, negli anni cinquanta, la forza dei suoi rituali: la macellazione del maiale, la festa del Carnevale, la separazione in caste. Un privilegiato è senz'altro Raimondo Quesada, rampollo di nobile famiglia e nipote dell'immancabile onorevole dotato di tartufesca verbosità. Al versante opposto ci sono i diseredati come Maria Soro: e non sarà un caso che i due s'incontrino a Roma, dopo tanti anni e abbiano una storia: non la favola bella del nobile e della prostituta redenta, ma un rapporto minato dal silenzio e dal disamore.
Ma il romanzo brucia in fretta le sue componenti naturalistiche. Disseminando la narrazione di infinite congetture che possono trovare conferma o definitiva dissoluzione, ma intanto inquietano e compromettono; scandendo ogni rievocazione con punteggiatura implacabile che sbalza ogni dettaglio - meglio se contraddittorio - in nitido rilievo; moltiplicando e incrinando con l'ausilio di documenti - veri, falsi e verosimili - i punti di vista e le prospettive, Mannuzzu fa vacillare tutte le certezze del narratore onnisciente e gli oggettivi riscontri del testimone: non è così facilmente addomesticabile l'esistenza di un uomo. Gli andirivieni della memoria e vecchie fotografie ricostruiscono una trama lontana di desideri e di affetti: un bambino innamorato di una madre che non c'è, un adolescente travestito da donna in goliardiche recite... L'ultima inquadratura, variamente ripresa e commentata, riguarda un banale appuntamento al ristorante, in una sera di agosto, con l'anonimo "cancelliere"; ma la donna dal "teschio piccolissimo di uccello, scheletro appena coperto di pelle" che viene a prendersi Raimondo, imperiosa, sembra già la Morte. Quella che verrà nel novembre successivo. Che cosa sia stata, dunque, la vita di Raimondo - anomalo bambino, adolescente inquieto, adulto infelice - e di tutti coloro che hanno incrociato il suo passaggio, Mannuzzu non sa e non può dircelo, se non in questo modo elusivo e struggente; se non attraverso queste braci, queste ceneri, per l'appunto: residui di una combustione che ha consumato tutto. Tutta la materia viva, s'intende, non il filo insopprimibile del ricordo: un ricordo che si fa il nido nei territori amati e, soprattutto, nei gesti: così, per il lettore, Maria Soro sarà fissata per sempre nell'atto di dipingersi le unghie, in una svogliata mattina d'attesa; Raimondo nell'atto di manovrare la manopola d'una vecchia radio, in una sera di inerti chiacchiere e giochi di carte. Tutta la vita - e ogni vita - non è che scialo, dissipazione di slanci e di energie; ma i residui, le ceneri, si riverberano nell'atmosfera e in qualche modo vi si fissano, a dispetto dei mutamenti di storia e di clima, a dispetto di ogni ragione. È proprio dal recupero di questi inestinguibili bagliori di vite trascorse che nasce la dolorosa bellezza di questo romanzo.
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