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Il libro, il cui titolo richiama l'autodefinizione di Baretti di essere nato "sotto il pianeta de' cavalieri erranti", è una puntuale intensa e appassionata ricerca delle ragioni che spinsero uomini di lettere anche meno noti di quelli cui nel 1976 accenna Carlo Dionisotti nel saggio Piemontesi e spiemontizzati, ad abbandonare la propria regione per esili volontari indotti da modi di esistenza non più sostenibili in patria. Dalla scelta operata da Giovanni Pagliero di occuparsi non solo di personalità di prima grandezza (Alfieri, Denina e l'appena ricordato Baretti), ma di indagare nelle pieghe dell'entourage alfieriano (Risbaldo Orsini di Orbassano, Francesco Dalmazzo Vasco), nell'ambito delle accademie del centro torinese e della periferia di Bra e Fossano (Benedetta Clotilde Lunelli, Guglielmo della Valle), fra i borghesi dediti alla professione di medico (Edoardo Calvo) o di avvocato (Carlo Bossi), fra i viaggiatori (Carlo Vidua), emerge un quadro dell'emigrazione intellettuale piemontese estesa e radicata. Il fenomeno ha riguardato cinque generazioni di intellettuali di provenienza sociale eterogenea e, per quanto attiene all'ambito dell'intellighentia riformatrice piemontese, è stato accostato al fuoriuscitismo torinese del ventennio fascista. Si deve, come sappiamo, all'ammirazione per il giornalista settecentesco il titolo "Il Baretti" dato al periodico gobettiano.
Pagliero, che da anni affianca all'attività di docente nei licei e più sporadicamente all'Università di Torino un impegno politico che da alcuni anni lo ha portato a ricoprire l'incarico di presidente della circoscrizione del Lingotto, è interessato soprattutto a rilevare le motivazioni di quei lontani dissensi e a sottolinearne le "ricette" proposte, secondo modalità che, pur nell'assoluto rispetto delle dinamiche storiche di allora, non impediscono al lettore riflessioni sulla contemporaneità. A indurre quegli hommes de lettres a "cambiar aria", a cercare in città europee come Parigi, Londra, Berlino luoghi più adatti all'elaborazione del loro pensiero e riconoscimenti più consoni al loro valore e ai loro interessi culturali, o a trasferirsi in Russia, Nord America, Medio Oriente, è stato l'insoddisfacente, talora odioso rapporto con il potere, napoleonico e, precedentemente, con la corte sabauda. L'apprezzamento del costituzionalismo inglese e dei modelli repubblicani, l'appello al mecenatismo, il rigetto della figura del courtisan, la denuncia della diseguaglianza e dei privilegi ecclesiastici, l'adesione agli ideali dell'89, la rivendicazione dell'autonomia e dell'indipendenza subalpina, le aperture in senso laico del giurisdizionalismo, l'incontro con il mondo protestante, ma anche l'esaltazione della "carica dirompente insita nelle forti individualità" costituiscono gli stimoli e gli obiettivi cui hanno guardato quegli uomini di cultura, pagando talora, come nel caso di Radicati di Passerano, con il carcere anche in terra straniera la formulazione delle loro idee. L'avere partecipato alla spiemontizzazione della loro terra ha significato, per loro, concorrere a determinare la "decisiva apertura e trasformazione" del Piemonte, che "doveva preludere, tra l'altro, al risorgimento nazionale". Non dimentichiamocene, nelle prossime celebrazioni per i centocinquant'anni dell'unità italiana.
Luisa Ricaldone
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