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Dopo trent'anni Mario Lavagetto ripubblica, con poche variazioni e un'appendice, il suo memorabile lavoro sulle diverse versioni del Rigoletto verdiano. La filologia dei libretti d'opera costituisce uno dei casi più intricati e irrisolvibili per gli editori. Ci sono libretti che cambiano a ogni nuova esecuzione. In certi casi, ci si trova di fronte a una selva intricatissima di redazioni, come nel Don Carlos di Verdi, che ci aggiunge di suo la doppia lingua (francese e italiano) delle sue versioni. C'è da perderci la testa e perfino da chiedersi se abbia senso stabilire un testo critico. Qual è il più attendibile? Il primo? L'ultimo? Nessuno?
In tanti mettono mano ai libretti e succede di tutto. Nel caso del Rigoletto la frenesia variantistica non sembra (per quanto risulta dai documenti) spiegabile (solo) con le ragioni specifiche del melodramma (quelle che Lavagetto definisce come una censura preventiva che obbedisce, a monte, a regole, abitudini, necessità proprie del genere) o con le consuetudini dei vari teatri in cui venne rappresentato, ma (soprattutto) con il ruolo delle diverse censure ideologiche e morali che hanno messo sotto esame e costretto a cedimenti il testo di Hugo (il libretto deriva, si sa, da Le roi s'amuse del drammaturgo francese) e Verdi. Prima di diventare il Rigoletto che conosciamo, e che andò in scena a Venezia nel 1851, il libretto scritto da Francesco Maria Piave era stato l'introvabile La maledizione (dal motivo drammatico e musicale che contrassegna tutta la vicenda tragica del buffone), respinto dalla censura veneta; quindi un Duca di Vendome, approntato in fretta da Piave per aggirare le obiezioni della censura, ma senza il consenso di Verdi, che lo rifiutò in un'importante lettera qui analizzata minutamente da Lavagetto (che mette in appendice a questa ristampa del suo saggio il libretto manipolato da Piave). Poi, dove non fu direttamente proibito, come a Ferrara, diventò (a Roma) Viscardello (1853) e, a Napoli, prima Clara di Perth e poi Lionello.
Erano prevedibili, spiega Lavagetto, i punti del testo che le censure avrebbero chiesto di sopprimere o modificare, e restano più o meno gli stessi dai primi interventi autocorrettori di Piave ai rifacimenti di Emanuele Bardare in terra borbonica. Sono quelli più esposti per ragioni ideologiche (un re, o sia pure un duca, che fa tali porcherie e tante leggerezze, per di più sposato
) o più sospettabili per ragioni morali (che succede tra il duca e Gilda in quella camera?, può un depravato buffone diventare un personaggio a suo modo nobile e alto?). Di qui le versioni diverse (a partire da ambientazione e onomastica) del Rigoletto, che cercano in un modo o nell'altro (e spesso senza successo anche dal punto di vista etico-politico che interessava) di far andar d'accordo l'avanguardia di Hugo-Verdi con i timori politici e moralistici delle vecchie classi dirigenti. Uno di questi punti critici era, ed è anche nel Rigoletto che conosciamo, un personaggio drammaturgicamente e musicalmente equivoco: il duca tenore, che, specie all'inizio del secondo atto ("Ella mi fu rapita.. Parmi veder le lacrime", e anche nella rumorosa cabaletta "Possente amor mi chiama"), sembra sbilanciarsi (quasi ce lo spingesse la sua natura di tenore, ruolo nel melodramma tipico del giovane avventato ma generoso, violento ma innamorato e leale) verso note positive e delicate, abbastanza in contrasto con quelle del libertino di "Questa o quella per me pari sono" e "La donna è mobile". Interessante osservare le variazioni di questa scena (non ben definibile, come aveva notato Mila, neppure nel testo firmato da Verdi) nei vari rifacimenti di Rigoletto, con soluzioni che in certi casi esaltano il lato positivo del duca, al punto da fargli promettere (ovviamente facendone uno scapolo) di sposare Gilda. Tanto per dire dove potevano arrivare i censori.
Vittorio Coletti
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