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La terra è secca, ha sete e si spacca. Sui labbri dei crepacci le lucertole arroventate corrono in fiamme. Le stelle cadono accese per bruciare il mondo, ma nessuno tende le maniper abbracciarle e si smorzano, tuffandosi nel buio.
Scipione (Gino Bonichi 1904 – 33) è noto sopratutto come pittore: la sua breve presenza a Roma alla fine degli anni venti costituisce uno dei momenti piú incisivi e intensi di espressione del rinnovarsi della giovane arte figurativa in un momento di fruttuosi scambi fra pittura letteratura e critica. Sotto il titolo di Carte segrete erano stati raccolti, dopo la sua morte, pochi versi, pagine di prosa e di diario, lettere, e fu subito chiaro che quel materiale restituiva schegge liriche di singolare, decisa forza poetica, tali da garantirgli un ruolo non secondario nella poesia italiana del Novecento. Integrato da altri testi, sparsi via via in riviste e libri di scarsa diffusione, quel gruppo di frammenti, qui riproposto, mostra Scipione in qualità di poeta dalla «grande forza panica», come dice Amelia Rosselli, e quale straordinario crogiolo di intenzioni e di ricerche espressive.
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Ci sono molti colori, in queste poesie di Scipione, che evidentemente non dimenticava di essere soprattutto un pittore: non solo i rosso-scuro e i neri dei suoi paesaggi romani, ma anche i gialli e gli ocra della terra bruciata dalla canicola, il verde dei campi, il blu di notti stellate. E c’è movimento di carne umana e di sussulti animali, in una fisicità totale poco innocente, gravata come da una colpa: «Mise le mani per terra ed era simile / ad una bestia. / La terra ha tutti i nascondigli, / gli scarabei ronzano nell’aria. / La testa alla radice dei capelli brucia, / le spalle si aprono, le viscere si commuovono». E ancora: «Gli odori colpiscono le narici, / le mani s’alzano a cercare / per toccare le cose create: / la pietra è fredda ‒ la carne è calda / e trascina intorno un fiato / che confonde la terra con il cielo». Poi di nuovo: «Un uomo nudo cammina: / è bianco come un albero senza corteccia / e tutte le cose create vogliono toccarlo. / E lui taglierà gli alberi / dopo aver goduto della loro frescura, / prenderà i pesci del fiume, / gli uccelli che volano. / Nell’aria c’è il fuoco, / il tuono scoppia / e la folgore scrive nel cielo / il carattere di Dio. / Il timore, il timore di lui / spezza il corpo nell’adorazione». Aveva ragione Amelia Rosselli quando nell’introduzione al volume scriveva dell’intensa religiosità percepibile in questi versi, nutrita forse di letture bibliche, e soprattutto dell’Apocalisse. Ma le divinità che governano il mondo allucinato di Scipione sembrano del tutto paganeggianti, faunesche, riecheggiando semmai le metamorfosi ovidiane, come in “Coro d’estate”: «Io sono la voce dell’albero che cade, / la mia corteccia sarà accarezzata / quando si vedrà che dentro sono bianco. / Le mie radici sono d’avorio e sono / nascoste ‒ la terra fine le ricopre. / Il mio corpo è rotondo, / l’aria sola mi toccava. / Gli uccelli hanno nidificato nei miei rami, / i loro occhi vedevano tutte le mie braccia, / le foglie li nascondevano”.
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