Festa complessa e perturbante quella del Carnevale, dove al riparo della maschera i ruoli della realtà quotidiana possono invertirsi, ogni eccesso orgiastico apparire legittimato, la corporeità manifestarsi nei suoi lati più vitali e i confini della morale assottigliarsi, e in cui allo stesso tempo già si annuncia la Quaresima, il cosiddetto addio alla carne. Alla sua liceità e alle multiformi valenze antropologiche, religiose e culturali che dall’antichità la accompagnano in quanto giocoso rito collettivo, hanno dedicato attenzione, com’è noto, molti studiosi: da Michail Bachtin (L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, 2001) a Florens Christian Rang (Psicologia storica del carnevale, Bollati Boringhieri, 2007) e Piero Camporesi (Il paese della fame, Garzanti, 2000), per non citare che i più celebri.
Due secoli fa, essa catturò l’attenzione di un tedesco d’eccezione quale Johann Wolfgang Goethe che, nel corso del suo avventuroso e formativo viaggio in Italia (in seguito alle delusioni subite presso la corte di Weimar), redasse un resoconto dell’esperienza diretta di tale festa nella Roma tardo-settecentesca. Il resoconto convogliò in questo piccolo libro da lui pubblicato nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese, presso l’apprezzato editore berlinese Johann Friedrich Unger, con il titolo di Das römische Carneval, ora riproposto dall’editrice Salerno nella traduzione di Isabella Bellingacci e con una felice introduzione di Luigi Reitani, proprio sulla base di quella prima edizione: un’edizione che era stata predisposta dall’autore stesso con gusto pressoché “multimediale”, dato che era anche corredata da una serie di disegni da lui eseguiti per l’occasione (diciotto tavole a colori, per la precisione, che rappresentavano travestimenti di tutti i ceti, maschere umoristiche e satiriche). Ci si trova di fronte a un quadro di vita sociale in cui ogni dettaglio è frutto dell’esperienza personale e viene restituito con l’occhio di un “inviato speciale” incredibilmente attento e documentato per quei tempi, con il brio e con il disincanto graffiante di chi può vantarsi di essersi soltanto “attenuto al vero”. Ne scaturisce una scintillante veduta d’insieme di una festa-baraonda che si distribuisce su vari corsi (soprattutto lungo via del Corso, su cui si affaccia proprio l’abitazione di Goethe), su varie piazze e su strade laterali, coinvolgendo popolo, nobili, curiosi e turisti anche d’oltralpe: non una festa offerta al popolo romano, ma piuttosto una festa che “in realtà” (si dice con finezza antropologica) quest’ultimo “offre a se stesso”. A orientare il lettore è lo sguardo di un Goethe che “si gode” lo spettacolo da osservatore spassionato e che si vede confrontato con un’alterità incentrata sulla sfrenatezza, sugli eccessi, sul ribaltamento di ogni gerarchia sociale e di genere: tutti elementi che entrano in collisione con la sua anima protestante, trasformandosi quasi in una sfida culturale.
Del Carnevale romano si riferiscono momenti e dettagli: la sfilata della folla e delle carrozze, gli ammiccamenti e il gioco degli sguardi, il clima di burla, che non risparmia gli stranieri (tedeschi compresi), la conclusiva corsa sfrenata dei cavalli che avanzano senza cavaliere per la via “lunga e stretta”, pungolati da lame acuminate e terrorizzati dal frastuono generale. E se ne colgono anche le ambivalenze: la “gioia travolgente e turbinosa” procurata dall’evento, ma insieme anche l’inseparabile sentimento dell’“angoscia” e del pericolo: il rischio di essere travolti dalle carrozze, i lati aggressivi, come nel lancio di “confetti”. Il culmine dell’analisi è raggiunto allorché Goethe individua nel Carnevale romano il trionfo della sfrontatezza e la momentanea sospensione della distinzione “tra ceti alti e bassi”, focalizzando lo sguardo sui patrizi stessi che, in tale occasione, paiono preferire di godersi la festa “immersi nell’anonimato della folla, piuttosto che distinguersi dagli altri”, lasciando così trasparire, in fondo, la crisi stessa dell’ancien régime, ormai politicamente insostenibile (come Goethe rivelerà splendidamente pochi anni dopo nel suo romanzo Le affinità elettive).
Delle atmosfere italiane questo Carnevale romano sa ben cogliere le luci e le ombre: il carattere di “festa di assoluta libertà e baldoria” che “passa come un sogno, come una favola”, il riproporsi di un “moderno saturnale” che si conclude con un “generale stordimento” e che tutto sommato è qualcosa di “insopportabile”. Sicché il resoconto goethiano sembra alla fine diventare un’allegoria della vita stessa: anch’essa problematica e insopportabile nel suo insieme, e tuttavia importante nella sua fugacità. Dal canto suo, per Goethe l’arte, come ricorda Reitani, si innesta sulla caducità insita nella storia della natura e dell’uomo proprio come un “momento tragico” di “superamento” di quella stessa caducità. In tal senso l’esperienza italiana, di cui anche questo piccolo capolavoro è espressione, si conferma per l’autore del Werther come un momento decisivo per ridefinire la propria identità e il proprio ruolo sociale.
Giulio Schiavoni