Che cosa tratteniamo dell'infanzia, la sfera più delicata e misteriosa di quelle che è dato transitare con una consapevolezza crescente di se stessi? Mentre la psicologia dell'età evolutiva è indirizzata a provare studi e formulare tesi, la letteratura si trova come al solito a svolgere un compito diverso, trattando in maniera necessariamente impressionistica immagini e sentimenti; nel caso dell'autobiografia, nondimeno, gli aspetti psicologici e narrativi vengono a sovrapporsi in maniera ampia, con esiti che possono risultare mirabili su entrambi i versanti (si pensi ad esempio a quel capolavoro assoluto che è La lingua salvata di Elias Canetti). Il nuovo libro di Iudica si inserisce a pieno titolo nel filone dell'autobiografia d'infanzia: ciò che maggiormente lo distingue, tuttavia, è nel costituire per il suo scenario sociale, più ancora che per la storia individuale in primo piano, un documento interessante rispetto alla vita italiana di metà Novecento. Una vita che il protagonista osserva attraverso la serratura di porte solidamente borghesi (e subito vengono in mente, per un inciampo immaginale, le soglie di certi vecchi studi medici o legali, foderati di libri e legni scuri), diaframma tra un ambiente confortevole, prevedibile, vagamente autoritario, e il mondo disordinato, brutale, meravigliosamente inaspettato che si agita tutto intorno, fuori. Lo scrittore bambino si aggira nel chiuso del suo ambiente con tutto l'arredo e i soprammobili tipici dell'epoca, dalle letture salgariane alla buona educazione cattolica, canotte della salute, divieti di sudare e ammonimenti a "divertirsi senza peccare" compresi circondato dall'amorevole apprensione di una famiglia dell'alta società milanese. Pure, alle volte la porta si apre, e i rumori dell'esterno invadono le stanze felpate dell'infanzia e della prima adolescenza allestite con compiaciuta consapevolezza lungo le pagine del libro. Esemplare, in questo senso, è l'annotazione del mutare dell'ambiente nel corso delle lunghe estati trascorse tra gli agi della riviera ligure negli anni cinquanta, davanti a sé un mare da solcare con la pirateria dell'immaginazione, in testa un bel cappello da ammiraglio, alle spalle una costa in corso di cementificazione selvaggia. Poi, di nuovo, la porta si richiude, e nella penombra del ricordo il racconto torna a farsi diorama affettuoso e commosso per le immagini di un mondo personale che non c'è più. Luca Arnaudo
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