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Con il titolo di Capolavori, Einaudi manda in stampa una scelta di romanzi pavesiani, per la cura di due ottimi specialisti come Mariarosa Masoero e Giuseppe Zaccaria. Diciamo subito che si tratta di un libro destinato a un pubblico ampio, come si diceva un tempo, "popolare", e ci teniamo a sottolinearlo perché Pavese è uno dei classici del nostro Novecento e deve continuare a passare fra le mani di tanti lettori, non solo studenti e addetti ai lavori. Nell'occasione del centenario della nascita (1908), l'opera di Pavese è più che mai sotto la lente di ingrandimento degli analisti, accademici e non, ma non può essere certo sottratta agli occhi limpidi di ogni amante della letteratura. Per cui se i pavesisti di ogni grado possono sempre godere della stupenda edizione di Tutti i romanzi, uscita nel 2000 nella "Pléiade" Einaudi a cura di Marziano Guglielminetti (che ci manca sempre tanto), con la ricchezza degli apparati allestiti ancora da Masoero e da Zaccaria, in compagnia di Claudio Sensi, Laura Nay ed Elisabeta Soletti, anche i neofiti o i nostalgici della narrativa pavesiana devono avere la possibilità di leggere o rileggere Pavese nelle edizioni "economiche". Questo volume di Capolavori è ovviamente basato sul testo ne varietur della "Pléiade", che correggeva la vulgata einaudiana precedente in più punti, e ha un'introduzione sobria, chiara e, direi, elegantemente didattica firmata dai due curatori a quattro mani.
C'è da dire qualcosa sulla scelta dei romanzi. La titolazione Capolavori emette un giudizio implicito su questa selezione, che include nell'ordine: lo strepitoso esordio di Paesi tuoi; i due romanzi che Pavese incluse nel volume Prima che il gallo canti, ovvero Il carcere e La casa in collina (il primo cronologicamente anteriore a Paesi tuoi, come si sa); quindi Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, seconda e terza anta del trittico La bella estate; infine La luna e i falò. Che questi testi siano capolavori, direi che nessuno potrebbe dubitare. E anche l'esclusione di La spiaggia e Il compagno ha una giustificazione abbastanza consolidata nella tradizione critica pavesiana, che li ha sempre visti come opere minori, per quanto ricche di elementi fascinosi e originali, soprattutto nella miscela "realistica" di tema amoroso-sessista e politico nel Compagno, romanzo in buona parte "romano" e torbidamente luminoso. Tuttavia desta qualche perplessità la mancanza della Bella estate, cioè del primo romanzo del trittico eponimo.
Due sono le obiezioni da muovere a questa esclusione, a parer nostro, la prima data dal fatto che Pavese volle i tre romanzi insieme nell'architettura del volume del 1949 che poi ebbe il premio Strega, la seconda fondata sulla considerazione che il primo dei tre romanzi non è affatto inferiore agli altri due: la squallida e cruda iniziazione al sesso e alla vita della protagonista Ginia, eroina passiva magnificamente dipinta, si nutre di relazioni intense, come quella con Amelia, figura corrosa ed emblema di spietatezza dell'esistere, e si popola di immagini simboliche strutturalmente pavesiane, come la ricorrente contemplazione allo specchio, confronto allegorico con la morte, ricco di sottintesi antropologici, che trionferà (proprio nel senso di un asciutto scabro trionfo della morte) nella lirica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, con memorie possibili che vanno da Ungaretti a Baudelaire a Rilke ecc. Se poi il motivo della collina-mammella, così prepotente in Paesi tuoi, ha suggestionato da sempre la critica pavesiana (e i curatori del volume che stiamo recensendo lo mettono bene in evidenza nella loro introduzione), nelle ultime pagine della Bella estate avevamo una chiarificazione notevole e quasi sorprendente del quadro mitico-simbolico in cui l'immagine si inscrive. L'amante di Ginia, il pittore Guido, esponendo suoi progetti figurativi, "diceva della collina che voleva fare, e che aveva in mente di trattarla come una donna distesa con le poppe al sole, e darle il fluido e il sapore che sanno le donne. (
) Io ti prendo una donna e te la stendo come fosse una collina in cielo neutro". Risulta nitida qui una delle icone ossessive dell'universo immaginario pavesiano, quella della grande donna-dea-terra distesa nuda nel paesaggio campestre primitivo e assoluto, con le mammelle quali colline (metafora già classica, in Pindaro e Callimaco, ma poi anche in Melville, Sherwood Anderson) e, aggiungeremmo, il pube quale vigna, oggetto di estasi fascinans et tremendum, luogo ombelicale del femminile da fecondare o a cui soccombere sacrificandosi.
Naturalmente un'esposizione articolata di questa mitografia intima pavesiana richiederebbe spazio ulteriore. Ci limitiamo a dire che la Bella estate rappresenta un panello imprescindibile dell'opera pavesiana e del trittico del '49 in particolare, per cui non sarebbe stato male ospitarla in un volume di Capolavori. Certo, ci saranno state forse anche volontà editoriali non addebitabili solo ai curatori, che hanno comunque fatto opera più che meritoria, resta inteso. D'altra parte, che dal canone dei capolavori pavesiani vadano esclusi i Dialoghi con Leucò è cosa che nessuno pensa, meno che mai Masoero e Zaccaria. I dialoghetti, vero testamento di Cesare, continuano a essere una lettura ostica per il grande pubblico ancora oggi? Segno che quel "libro terribile" è davvero scomodo e potente, e si dovrà ormai procedere a un'edizione critica e commentata di un testo così cruciale per il nostro Novecento.
Un'ultima osservazione un po' pessimista. La quarta di copertina del volume recita che "di Cesare Pavese Einaudi ha pubblicato tutte le opere". E sia, ma allora perché l'interessantissimo diario del 1922 Dodici giorni al mare, curato splendidamente da Masoero, è uscito nel gennaio di quest'anno presso l'editore genovese Galata (cui siamo debitori) e non per Einaudi? E perché, sempre alla Einaudi, c'è attualmente disinteresse per la pubblicazione di altri inediti, quali ad esempio le traduzioni da Omero, soprattutto quelle degli ultimi anni pavesiani? Sono lontani i tempi in cui uscivano con il marchio Einaudi preziosi inediti quali Ciau Masino, Lotte di giovani, le versioni da Esiodo, Shelley e quant'altro. E sono ancora tanti gli inediti conservati nell'Archivio Pavese di Torino. Il "grande pubblico" non li merita più? Noi crediamo di sì. Roberto Gigliucci
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