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Con un simile titolo ci si sarebbe attesi uno sforzo teorico e analitico maggiore.L’A. sceglie, per affrontare un simile complesso argomento, la strada più facile:quella “riduzionistica”.Il suo scopo infatti non è quello di elaborare una teoria più o meno completa/ssa sul modo/moto di produzione capitalistico (v. La Grassa, Screpanti).Si accontenta invece di una semplice descrizione-lettura dell’odierno quadro capitalistico (dialogando qua e là con il passato).L’A. sparge il libro di una serie di spunti interessanti e stimolanti (v. la lettura critica del “mito” della rivoluzione industriale), si lascia andare però in affermazioni un po’ troppo banali, alla moda e poco ragionate sulla fine dell’importanza, ai fini della gestione perfino strategica di un’impresa capitalistica, della proprietà privata dei mezzi di produzione e dei prodotti finali.I manager sarebbero i nuovi padroni; eserciterebbero il potere all’intero dell’azienda senza risponderne a nessuno.L'A. non si preoccupa di differenziare gli azionisti al loro interno:e cioè tra chi realmente detiene il potere decisionale di ultima istanza, derivatogli dai diritti di proprietà e chi invece è un semplice detentore di azioni che ha come unico scopo quello della distribuzione dei dividendi.Gli “assetti proprietari” rilevano ancora nelle aziende capitalistiche!L’A., da buon sociologo contemporaneo, cade nel “sociologismo”, e cioè quella particolare lettura e pratica della sociologia che si ferma al mero dato fenomenico, privandosi del tentativo di elaborare (e poi verificare) leggi generali di moto del capitale.Siamo ben lontani dalla sociologia intesa come scienza della teoria generale della società (Bucharin, Labriola).Il libro è sufficiente per il contenuto “in sé”, ma decisamente deludente per chi volesse capire qualcosa in più sulle leggi generali della società capitalistica.Terminare il libro per “scoprire” soltanto che il capitalismo è un “processo”, una “prassi”, un’“innovazione tecnico-pragmatica”, sinceramente è un po' pochino.Ottimo il prezzo.
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