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scheda di Bongiovanni, B., L'Indice 1997, n.11
Implacabile, la questione della peculiarità russa ritorna. Per tutto il XIX secolo, i populisti, vale a dire quanti vedevano nel popolo delle campagne il veicolo della redenzione, hanno sostenuto che la Russia era, per la sua stessa natura, refrattaria al capitalismo. Lo stesso Marx, in ispecie nei suoi ultimi anni, ha nutrito un simile sospetto, pur così antitetico alla concezione materialistica della storia. Sui giornali oggi si leggono "réportages" contrastanti. C'è chi preferisce sottolineare gli splendori urbanistici, e le ricchezze dei nuovi (o vecchi?) potenti, nella Mosca postcomunista, e c'è chi denuncia le serissime difficoltà incontrate dai russi a generalizzare i benefici dell'economia capitalistica. Sapir, chiaramente, è tra questi ultimi. Il liberismo intransigente introdotto nel 1992, senza "welfare", ha prodotto crisi di liquidità, accumulazione di enormi debiti, degradazione dei rapporti fra centro e periferie, impotenti soluzioni militari. La vecchia nomenklatura si è insinuata, senza le regole che prima in qualche modo la avviluppavano, nel nuovo sistema, dominandolo. Il crollo di un'economia pianificata ormai in agonia e di un sistema politico chiuso ha così generato il caos generalizzato. Il fissismo sociale, come prima, prevale sulla mobilità, la speculazione sugli investimenti produttivi, e il capitalismo, inteso nelle accezioni di Braudel o di Polanyi, sul mercato: l'economia, cioè, senza produrre merci, e senza disporre di "mani invisibili", si è disincagliata dalla società. Esiste allora una peculiarità della Russia?
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