Deve essere stato un lavoro immane quello di Leonardo Colombati, il curatore dell'antologia della canzone italiana pubblicata da Mondadori e Ricordi. Non tanto per le scelte, visto che l'antologia tende a riflettere e confermare un canone già consolidato, quanto per la parte critica e documentaria, per le annotazioni, per gli apparati. Di solito lavori di questa mole vengono affidati a più di un curatore, se non a redazioni ricche di collaboratori, ciascuno esperto di un genere, di un periodo, di una scena: ma qui abbiamo a che fare con la popular music (o, se si preferisce, con la musica leggera, di consumo) e gli editori italiani, piccoli e grandi, si sono abituati e ci hanno abituato a questo tipo di imprese solitarie. Ricordo il caso della Garzantina della canzone, a lungo promessa (dopo che la popular music era stata espulsa nella nuova edizione della Garzantina della musica), e poi partorita da un unico autore con risultati davvero deludenti. Non è questo il caso: Colombati non solo ha buone intenzioni, ma anche una certa capacità di maneggiare un materiale così ampio. Ci sono lacune (alcune, riferite a Battisti e Celentano, imputabili a questioni di diritti e non a trascuratezza del curatore), ci sono errori, ma non si può proprio dire che l'obiettivo di compilare un'antologia comprensiva dei testi della canzone italiana sia mancato. Il problema, semmai, sta proprio nel genere, nel formato: c'era bisogno di questa antologia, e di un'antologia fatta così? È possibile (purtroppo) che il consenso di una coppia di editori così importanti a un'opera simile sia dovuto al centocinquantenario dell'Unità, e questo certamente attenua il senso della critica che sto per formulare: che se questo libro fosse stato pubblicato anche solo una dozzina di anni prima sarebbe apparso meno datato. Il tempo passa in fretta, e gli anni dal 2000 a oggi sono stati ricchi di sviluppi, anche in Italia, negli studi sulla popular music. Ad esempio, l'idea di occuparsi della canzone italiana trattando solo dei testi o degli interpreti, ma non della musica, poteva passare ancora fino alla fine degli anni novanta (la morte di De André, con la saggistica che ha generato, è uno spartiacque): adesso è il residuo di una tradizione invecchiata. E attenzione, non intendo che occuparsi della musica delle canzoni implichi usare un linguaggio ultraspecialistico o infarcire il testo di esempi sul pentagramma: lo si può fare usando un linguaggio comprensibile a molti, occupandosi dei più vari aspetti del suono di una canzone. Perché queste benedette canzoni noi di solito non le leggiamo: le ascoltiamo da degli altoparlanti (tutte: non solo il rock progressivo, a proposito del quale Colombati si sofferma su qualche dettaglio tecnico). Un libro eccellente di Allan Moore, appena uscito, si intitola Song Means: Analysing and Interpreting Recorded Popular Song (Ashgate, 2012): di esempi sul pentagramma ce ne sono davvero pochi. Ma tutta la saggistica sulla popular music, senz'altro nell'ultima quindicina d'anni, indica quanto occuparsi di canzoni significhi occuparsi del loro suono. A dire il vero nella bibliografia compilata da Colombati, di testi teorici generali sullo studio della popular music (dunque anche della canzone) non ce ne sono. All'inizio, scorrendo l'elenco, mi ero convinto che il curatore avesse dovuto ridurre le dimensioni della bibliografia per questioni editoriali. Mi sembrava strano che in un'opera di quasi tremila pagine non ci fosse spazio per altre dieci-quindici pagine di apparati, ma tant'è, a volte gli editori hanno strane avarizie. E mancavano anche parecchi libri appartenenti a categorie incluse nella bibliografia, e tutt'altro che marginali e sconosciuti (che so: alcuni dei testi più noti su De André). Poi però, scorrendo il testo, mi sono reso conto che Colombati, di argomento in argomento, citava ricorrentemente gli stessi saggi, sempre i medesimi: il che può avvenire nell'ambito di un articolo breve, non di un'opera di queste dimensioni (e ambizioni). Ma appunto: queste sono cose che si sono fatte nella saggistica pionieristica e semidilettantistica del secolo scorso, ma che oggi è più difficile accettare. C'è dunque un problema di aggiornamento: il che non vuol dire che il curatore non mostri una grande e diffusa competenza e un'encomiabile acribia (specialmente nelle note: la parte migliore del lavoro), ma che l'opera nel suo insieme soffre di lacune, soprattutto di impostazione, dovute alla scelta editoriale un po' temeraria di affidare un lavoro simile a una persona sola. E nonostante questo, lo stile non è poi così omogeneo, risentendo dei numerosi prestiti da siti web (ben scelti, per carità) che a volte coprono la totalità delle voci dedicate ad autori e interpreti. Forse proprio il web, in un progetto più aperto, sarebbe stato un contesto migliore per rendere di pubblica utilità la competenza del curatore. Franco Fabbri
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