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Nei corsi di filosofia politica, il Leviathan di Thomas Hobbes è un "punto di partenza". Imprescindibile fondazione razionale dello "Stato moderno". Secondo alcuni, opera seminale del liberalismo. Il libro di Roberto Farneti è interamente dedicato alla problematizzazione di tale presupposto. Il tema è di indubbia rilevanza. Ma nelle scelte linguistiche e nell'argomentare, l'autore non rinuncia a certe "mode" filosofiche. Per la verità, oggi anche un po' datate. L'idea di fondo, comunque, è che il Leviathan sia diventato "l'incunabolo del canone moderno, il suo libro di testo, il capitolo iniziale della Denkbibel del pensiero politico moderno". In questa operazione, però, avverte Farneti, qualcosa sfugge. Un quid, nella versione recepta, nella orthodox view, non si lascia afferrare. Lo studioso ricorre, pertanto, alla "genealogia" intesa come "revisione dei saperi divenuti progressivamente centrali nella conversazione filosofica". Come metodo per svelare opacità e interruzioni "che vengono sapientemente coperte dal sistema". Come analisi che strappi la coscienza "dall'abbraccio delle sequenze latenti in cui era felicemente gettata". In altri termini, l'idea è di non ignorare ciò che del Leviathan è irriducibile allo stato razionale. Quel residuo che è costituito, secondo Farneti, dal "mito". Hobbes scelse un simbolo teologico, il leviatano, che fosse capace di evocare immediatamente la sua provenienza ebraico-cristiana. Ma i suoi nemici teologici dell'epoca, che insistettero sulla "elementare e animale mostruosità" del leviatano, diedero espressione a un'immagine mitica ripugnante, in grado di fare passare in secondo piano il significato teorico del testo. Il Leviathan, modello filosofico della costruzione politica razionale, "antimitica", non riesce a sottrarsi, dunque, alla "più radicale mitologizzazione". Un aspetto che, osserva Farneti, colse anche Carl Schmitt, riconoscendo in Hobbes il manifestarsi dell'origine irrazionale della ragione moderna.
Giovanni Borgognone
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