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Lo Chott el-Jerid è un lago salato situato ai confini del Sahara, in una depressione della Tunisia meridionale. Al suo fantasmagorico paesaggio da incubo canicolare estivo, Andrea Raos (funzionario del MAE a Chicago) dedica questo libretto di versi e prosa alternati in poche pagine di scrittura ansante e quasi allucinata, obbediente al ritmo sincopato di una musica interna ossessiva, incalzata da continue ripetizioni, echi acustici, allitterazioni, sospensioni di senso e implosioni stilistiche. "Così, nel far strada, raggiungevo la prima linea del sale e dei suoi mille, cristalli. Già sapevo non ti avrei avuta." Punteggiatura stravolta, congiunzioni saltate, frasi tronche: a ribadire un sentimento di estraneità al reale, uno spasmodico aggrapparsi a brandelli di verità abbaglianti ma assolutamente inconsistenti. C'è una lei che appare e sparisce come un miraggio, c'è un deserto infuocato e assetato preda di cani randagi e rabbiosi, di uccelli erranti affamati, e di un vento che alza a folate la sabbia, mentre il sale affiora sul terreno trasformato in cristalli dai colori cangianti. Andrea Raos ne è preda arresa, protagonista solitario di un suo viaggio irreale da day after l'esplosione cosmica: "Cammino nel deserto che è la notte di ieri, era notte ieri, era, notte, ieri, ora cammino nel deserto e questa sabbia brucia nei calcagni, fino alle ginocchia, aggredisce le cosce. Frigge la pelle intanto che la guardo. Così ne passo adesso, senza acqua per bere o per piangere, cadere. Questa acqua per piangere, questa sabbia a cadere. Ne partono masse di calore, a premere addosso, che premono la pelle così tanto a gonfiarsi, adesso annera, era nera ieri, è nera ora, sono massa scura contro il bianco del piano". Si affida allora a una sorta di scrittura automatica, a elenchi interminabili di sostantivi che ricordano gli esperimenti linguistici protonovecenteschi: in una ridondanza di insignificato che sembra voler annullare ogni esistente, ogni eredità letteraria.
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