Che guardare una fotografia sia innanzitutto guardare il modo di vedere il mondo di colui che l'ha scattata può essere vero, ma tra gli autori della fotografia vi sono quelli che dissimulano sapientemente la propria presenza dietro l'obiettivo, tanto che lo scatto sembra essersi fatto da sé, e quelli di cui pare di poter sentire il respiro mentre avvicinano l'occhio alla macchina. Mimmo Jodice appartiene di certo al secondo gruppo. Nel suo lavoro il filtro offerto dal suo guardare è così denso che non c'è possibilità per l'osservatore di perderne la consapevolezza neppure per un istante. Jodice è il primo a riconoscere che osservare le sue opere è come vedere i suoi pensieri, un eterno paesaggio interiore che si rinnova nello specchio del reale. In questa raccolta di pensieri e ricordi di Jodice a commento di una selezione di sue opere, è possibile sfogliare le sue immagini, a cogliere i pensieri che vi abitano e accanto alle riproduzioni leggere parole che hanno impresso il suono della voce di Jodice, tanto è ancora acceso in loro il carattere colloquiale del parlato. La lettura diviene così un'immersione nel suo mondo, un affondo nel suo animo, e nulla potrebbe essere più giusto per accostarsi al suo lavoro. Guardando le sue fotografie ci si sente trascinati da uno sguardo che ci precede, che va inabissandosi nelle cose e ci chiama a seguirlo. I suoi soggetti hanno il potere delle sirene: la suadente seduzione dell'inquietudine destata dalla bellezza quando giunge a farsi dolorosa. È il caso delle sue opere dedicate ai riti cattolici campani, all'epidemia di colera a Napoli, ai reclusi di un ospedale psichiatrico. Colpisce però che non meno dolorosa, non meno struggente, sia la bellezza delle sue foto di sculture antiche, eppure il dramma umano è il medesimo: su quei volti sbrecciati è ancora acuto e vivo lo sguardo e inesausto l'interrogativo che vi abita e che sembra non poter che domandare ragione del tutto. Nelle immagini di Jodice ogni crepa, ombra o riquadro, ogni volto di persona viva o di statua appare come una soglia socchiusa, come un'interdizione a cui si sposa un invito, la promessa imprudente di una conoscenza ultramondana nascosta nelle sembianze del mondo. La ricchezza del libro sta nello scoprire che le parole di Jodice sono improntate a un pensiero limpido, curioso, che non intende alimentare il mistero delle sue immagini dietro discorsi fumosi o oracolari. Il suo approccio all'interpretazione della fotografia è schietto e diretto. La camera incantata ha tra le sue pagine letture di opere di rara intensità come Culto dei morti (Napoli 1975), in cui si vede un ragazzino dietro al cancello di una chiesa chiedere l'elemosina con una scatolina su cui appare l'immagine del teschio con le due ossa incrociate. Jodice sottolinea quanta importanza abbia il motivo delle righe orizzontali della maglia del ragazzo, le sbarre verticali del cancello e come la presenza dei gradini del sagrato sullo sfondo ribadisca la scansione ritmica lineare. La lettura formale, cristallina, spiega molte cose. Spiega la forza dell'immagine, ma l'inquietudine non è diminuita né, tanto meno, dissipata alla luce di queste spiegazioni perché abita a un livello più profondo: è incardinata nella natura di alcuni aspetti di Napoli, come nell'animo di Jodice. Le sue fotografie sembrano frutto degli incontri più autentici tra due nature fatte per corrispondersi. Il nucleo affettivo della sua visione del mondo è così remoto che anche l'analisi più onesta non potrà scioglierne l'incanto. Le parole di Jodice davanti alle sue opere sono come quelle dei grandi maestri: dicono senza reticenze, ma più dicono, più la bellezza di quanto presentano si fa profonda, irraggiungibile. Elena Volpato
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