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Il curioso appellativo "cacodemone" si riferisce, come l'autore spiega nell'introduzione, allo spirito caustico, estremamente pungente del filosofo Giulio Preti (1911-1972), allievo di Antonio Banfi e animatore, assieme allo stesso Banfi, a Cantoni e a Paci, della "scuola milanese" di matrice fenomenologica. Accanto allo spirito sferzante di Preti, Minazzi rimarca la sua "inquietudine pascaliana" e il suo antifascismo militante, che lo porterà a legare, in anni bui, oltre che con Banfi, con figure di spicco dell'antifascismo e della Resistenza come Ragghianti e Geymonat (un capitolo è dedicato anche a un confronto con Eugenio Curiel). L'antifascismo pretiano è caratterizzato da un'estrema lucidità e da una capacità di analisi del presente che gli permettono, da un lato, di denunciare da subito i rischi del mantenimento del sistema burocratico fascista e, dall'altro, di segnalare i pericoli di una legislazione che non ha intenzione di tagliare i ponti, in maniera netta, con il passato. Per questo, sostiene Preti, seguendo la lezione di Banfi, il problema della lotta al fascismo non è solo una questione politica ma anche "spirituale". Con parole che richiamano il Gramsci dei Quaderni, Preti afferma infatti che "sostenere una filosofia è compiere un atto pratico, porsi con una parte; è un militare". Di notevole interesse è anche il capitolo dedicato alla genesi di Praxis ed empirismo (1957) dove Minazzi utilizza il manoscritto autografo dell'opera, acquisito dal Fondo G. Preti dell'Università di Milano una dozzina di anni fa, e conclude con considerazioni sulla radice pascaliana della filosofia di Preti. Pascal – il primo pensatore moderno della crisi storica dell'uomo inteso nella sua finitudine – rappresenta un punto di riferimento essenziale nell'elaborazione del pensiero pretiano, proiettato verso una "spiralità critica", capace di avvertire "la profonda inquietudine problematica dell'esistenza".
Gianluca Giachery
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