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Anno edizione: 2019
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David Hayden, scrittore esordiente, con la sua prima raccolta di racconti, Il buio a luci accese riesce nel tentativo di sorprendere e mettere a soqquadro la testa del lettore. Siamo in presenza di una letteratura difficile da catalogare. Inoltre, occorre rilevare la presenza di una vena surrealista, soprattutto nella resa di certe ambientazioni claustrofobiche, veri incubi a occhi spalancati. Ogni racconto è un microcosmo chiuso e concluso in sé, che riposa su leggi a sé stanti. David Hayden, scrittore non per tutti, tra iperboli e fantasticherie del quotidiano, in queste venti short stories segnala il suo talento e le sue potenzialità.
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David Hayden, panorami irlandesi tra paradosso e sogno
di Enrico Terrinoni
L’Irlanda è una terra di racconti detti e ricordati, di racconti smembrati e rimembrati. Ma è anche una terra di racconti rubati, il paese dello stolentelling, avrebbe potuto dire Joyce. Racconti e storie che si addentrano tra i meandri di una cultura che per molti secoli è rimasta orale: questo per motivi politici dovuti anche ma non solo all’ossessione britannica per lo sradicamento dei tratti culturali indigeni. E nella tradizione irlandese esiste una figura chiave nella trasmissione culturale: la figura dello Séanchai, il cantastorie.
Spiega il critico Colbert Kearney, nel tentativo di descrivere come l’oralità sia un imprinting della cultura dublinese prima ancora che della cultura irlandese, che tra l’arrivo della cristianizzazione e grossomodo i tempi di Shakespeare, l’Irlanda aveva il vanto dell’erudizione e del sapere; ma proprio allora, quando in tutta l’Europa occidentale le scuole iniziarono a permettere la possibilità della scolarizzazione a sezioni sempre più grandi della popolazione, la prassi coloniale inglese si focalizzò sull’obiettivo di sradicare il sistema indigeno negando l’istruzione alla maggioranza della popolazione, i cattolici (…) La portata di questa privazione possiamo intuirla se ci ricordiamo di quanta gente viveva in condizioni di desolante povertà nei peggiori slum d’Europa, e che l’istruzione disponibile era l’unica fuga dalla trappola della povertà. Eppure, sebbene la povertà privasse questa gente del potere intellettuale ed economico dato dall’alfabetizzazione, non lì privò mai della cultura.
In questo contesto, la figura del cantastorie tradizionale appare non solo centrale quale fattore di resistenza all’oppressione culturale, ma anche ovviamente come tramite per la trasmissione del sapere. Si trattava di “compositori orali” la cui ombra sinistramente lambisce ancora i lidi della letteratura contemporanea, quella inserita inevitabilmente in dinamiche di mercato.
Tanti scrittori irlandesi, infatti, seppure affidandosi ora alla scrittura e non all’oralità, sembrano ancora appartenere al solco dello storytelling tradizionale. In virtù della forza della parola detta, allora circolante solo nello spazio aereo tra le persone, ora inchiodata alla pagina con un inchiostro che ne sporca il candore, l’oppresso resiste ancora all’oppressore; che però non è più l’inglese ma il capitale, il mercato editoriale, inscenando spesso una “resistenza linguistica” in cui si gioca una partita a scacchi tra la letteratura e il letterario.
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