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Quando in Francia, nel 1997, Gallimard pubblica il Breve trattato sul paesaggio si è nel bel mezzo di un'attenzione straordinaria conferita a questioni di paesaggio e a una proliferazione inarrestabile di contributi sul tema. Libri, rassegne, esposizioni, convegni che "prolificano come metastasi", come rileva lo stesso Alain Roger. Manca però un trattato. Un contributo fondativo, capace di allontanare fraintendimenti e circoscrivere l'oggetto, puntualizzando concetti e fissando principi. In modo breve, compiuto ma conciso, sistematico, rigoroso e maneggevole. Così è nelle intenzioni dell'autore. Accorte peraltro. Il successo del piccolo libro è immediato e da subito dilaga ben oltre il territorio francese. Immancabile il riferimento al Trattato nei dieci anni successivi a sostegno di qualsiasi discorso sul paesaggio. Ove del paesaggio si intenda evidenziare l'origine, segnare la storia, mostrare l'utilità. Contemporaneamente altri contributi fondativi si diffondono. Dizionari, lessici, programmi, manifesti, molte altre origini e storie. Tanto che, per quanto ingrato possa apparire oggi il fatto di confondere il Breve trattato nella produzione bulimica e babelica degli ultimi venti anni, certo è che questa non lo ha molto aiutato a risaltare e differire.
Le recenti traduzioni italiane dei testi che più hanno trainato la divulgazione e diffuso il consenso possono oggi facilitare un'operazione di distinzione. Nel tentativo di spiegare, retrospettivamente e per parti, le ragioni di un'affermazione e di un successo. E al contempo, nel dovere di restituire alle singole parti la propria specificità e specialità. Quella del Breve trattato sul paesaggio è retta da una ben nota massima di Oscar Wilde: "È la vita che imita l'arte". E il paesaggio è un prodotto di questa trasfigurazione. Storica, culturale e artistica. La natura (come la vita) è indeterminata e solo l'arte può determinarla. Nessun intervento mistico, nessuna dimostrazione scientifica. Occorre un'opera di artialisation. Stabile o mutevole. In situ, attraverso una modificazione dello spazio, o in visu, attraverso il modo in cui modifichiamo la nostra percezione di esso. In entrambi i casi è l'estetica che regge il prodotto. Sia esso un giardino, capace di estendersi sino a divenire pianeta (Gilles Clément, Il giardiniere planetario, 22 Publishing, 2008), sia invece deserto, foresta, ghiacciaio, montagna, ma anche più banali spazi ordinari dell'abitare contemporaneo, che da luoghi orridi e temibili, o infimi e insignificanti, divengono paesaggi. Più o meno sublimi. Non è questo ciò che è rilevante. Quanto piuttosto la capacità del paesaggio di invertire i rapporti con il mondo. Stimolando o mettendo in crisi relazioni già date (Jean-Marc Besse, Vedere la Terra, Bruno Mondadori, 2008).
Chi si intende di paesaggi educa a questa inversione. Forgiando nuovi modelli di visione capaci di dare al mondo un valore estetico. "Ecco cosa dobbiamo fare, ognuno secondo il proprio ruolo e i propri mezzi: inventare l'avvenire, alimentare lo sguardo di domani e, soprattutto, non rattrappirsi sul passato". Non assumere atteggiamenti nostalgici e non immaginare che sia un contratto naturale il nostro vincolo con il mondo. Bensì artificio, anticipazione, invenzione. Ce lo ricordano, uniti in un contratto a dir poco innaturale, Chabason, Francastel, Mac Luhan, addirittura Adorno: l'arte è anticipazione. E il paesaggio, quale prodotto artistico, non è cosa per tutti. Per eletti, piuttosto. Osservatori capaci di riconoscere in un paese un paesaggio, viaggiatori sensibili in grado di sottrarsi all'autismo dello spostamento, della perlustrazione turistica, dell'intemperanza estetica e dei modelli confezionati. Ma le difficoltà non finiscono qui per chi davvero si intende di paesaggi. Gli eletti sono solitamente fraintesi, mal interpretati, vivono il dramma dell'artista incompreso. Torna Oscar Wilde nel trattato di Roger: "Là dove un uomo colto riceve un'impressione, l'uomo incolto prende un raffreddore". E i due abitanti dello stesso paesaggio raramente riescono a comprendersi, tanto meno ad aiutarsi nelle rispettive disavventure.
In anni recenti, molti appassionati al tema si sono assunti il compito di far sì che soggetti diversamente educati potessero invece capirsi e produrre assieme paesaggi comuni dagli esiti virtuosi. Architetti e architetti del paesaggio, urbanisti, geografi, esperti di politiche urbane e territoriali. Interpreti di paesaggi variamente impegnati a risolvere il problema più arduo e annoso. Quello di trovare una chiave di lettura plurale del reale, e istituzionalizzarla. Alain Roger, al contrario, su esortazione o meno di Oscar Wilde e dei suoi snobismi, ben si guardava dall'assumere un simile esito come praticabile. Pena la replica di paesaggi piuttosto che loro invenzione. L'insistenza del Breve trattato riguarda ben altro: il carattere autentico dell'attività artistica (e dei paesaggi che essa produce), il paesaggio quale scrittura della storia, la promessa di liberazione contenuta entro un progetto estetico. In gran parte dell'attuale discorso sul paesaggio, tutto questo sembra essersi dissolto. Non che oggi manchi il ricorso a categorie estetiche ogni volta che si intenda recuperare una qualche forma di relazione coinvolgente tra spazio e società. Ma l'estetica di riferimento sembra ormai aver detto addio a teorie e dottrine universalistiche cui il trattato non sembra affatto voler rinunciare (Jean-Marie Schaeffer, Addio all'estetica, Sellerio, 2002). In luogo di una teoria, infinite relazioni estetiche, capaci ogni volta di raccontare specifici modi di rapportarsi al mondo, senza la pretesa di poterlo ogni volta, più o meno per incanto, cambiare.
Accade che un successo travisi la sostanza. E che l'onda sospinga argomenti in ragione d'altro. Non molto tempo fa era la différance di Derrida a farsi architettura della decostruzione, e a rinvigorire pratiche artistiche in cerca di entusiasmi e legittimazione. Oggi, rileggendo il Breve trattato del romanziere e filosofo Alain Roger, appare evidente che il discorso sul paesaggio abbia condotto altrove le posizioni originarie dell'autore. Resta da chiedersi il perché del grande appeal delle origini. Quando in fondo si trattava (oggi cosa forse più evidente) di un tradizionale trattato d'arte a uso e consumo degli architetti cui si riferiva. Certo, la differenza la faceva il paesaggio. Nel vortice postmodernista degli anni novanta quale architettura avrebbe mai osato ascriversi al sublime? A ripensarci, non fa una gran differenza. Per un po', dell'ego artistico di architetti costretti entro posture fisse se ne è preso cura il paesaggio. Per poi praticare altre direzioni, lasciandoli di nuovo soli.
Angelo Sampieri
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