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recensione di Cortellazzo, S., L'Indice 1998, n. 7
Carriera difficile e altalenante, quella di Blake Edwards, autore eclettico e prolifico, dalla filmografia vulcanica e debordante. Come altri suoi compatrioti, ad esempio Allen o Altman, ha ricevuto attenzione e apprezzamento critico soprattutto in Europa, e in particolare in Francia e in Italia. La temperatura del suo successo, in America, è stata infatti misurata esclusivamente tramite i risultati registrati al box office, con le conseguenze, ovvie, che ne sono derivate.Le due monografie, uscite quasi contemporaneamente, ricostruiscono con dovizia di analisi, materiali e interviste il tormentato percorso artistico vissuto da William Blake McEdwards (Oklahoma, 1922), che si è fatto le ossa, come tanti grandi autori del cinema hollywoodiano, lavorando sul campo, facendo mille mestieri: da "mail-boy" a comparsa, da attore, ballerino, coreografo a ottimo sceneggiatore (anche per la radio), produttore e regista di grandi successi come "Operazione sottoveste" (1959), "Colazione da Tiffany" (1961), "Hollywood Party" (1968), "10" (1979), "Victor Victoria "(1982), nonché "La pantera rosa "(1964) e la serie che ne è seguita.
Nel volume curato da Edoardo Bruno - che nasce dal lavoro di gruppo di collaboratori e redattori di "Filmcritica" - l'intervento di Vittorio Giacci, posto a metà del percorso interpretativo, ha in realtà le caratteristiche di un efficace saggio introduttivo, per la sua capacità di cogliere, "in itinere", i tratti peculiari della sfaccettata e poliedrica filmografia edwardsiana, rivisitata cronologicamente.Uno dei caratteri primari, che saltano immediatamente all'occhio, è l'oscillazione perenne tra commedia e poliziesco o tra commedia e melò, o ancora tra "comedy "e "slapstick", e dunque la difficoltà di classificare, con una formula unica ed efficace, il cinema di Edwards, un cinema che lavora sui generi, spesso parodizzandoli.
Nella lunga intervista iniziale, a cura di Gabriele Pedullà, il regista si sofferma, con ricchezza di particolari, sul suo metodo di lavoro, improntato sulla libertà di improvvisazione data agli attori e al lavoro di squadra con collaboratori fidati (Henry Mancini, autore della maggior parte delle colonne sonore; Tony Adams, produttore delle ultime pellicole; Philip Lathrop, direttore della fotografia).Ne scaturisce il ritratto di un cineasta in perenne ricerca, aperto e inquieto, segnato dall'ostracismo dell'establishment hollywoodiano che non gli ha perdonato alcuni fallimenti al botteghino ("La grande corsa", "Operazione Crêpes-Suzettes", "Il caso Carey", "Uomini selvaggi", quest'ultimo un western autunnale selvaggiamente manipolato dalla distribuzione), relegandolo ai margini e negandogli la possibilità di lavorare sui suoi progetti - di qui un lungo autoesilio in Europa per ritrovarsi e ricostruirsi.
Le mediazioni conseguenti, necessarie ma faticose, lo hanno visto costretto a rinverdire di tanto in tanto la serie della "Pantera rosa", in cambio della possibilità di girare progetti più sentiti, ma rischiosi, come "S.O.B." (1981), tragica farsa che mette in mostra le spietate regole del mondo hollywoodiano, tristemente sperimentate in prima persona. Il cinema di Edwards, come illustra Bruno nell'introduzione, guidando alla lettura dei vari interventi, lavora sulla contaminazione dei generi che scatena la distruzione del set (Cappabianca), opera sui rimossi e sulle resistenze (Turco), sfianca tutti i codici narrativi e smonta lo spettacolo nel momento stesso in cui lo celebra (Pezzotta), fa "sentire" il passare del tempo sui volti e sui corpi, corpi veri e corpi inventati, come il corpo della Pantera (Di Marino).
La pubblicazione del Castoro, edita in occasione della retrospettiva organizzata nell'autunno 1997 dal Centro studi cinematografici di Milano, un po' meno approfondita, si segnala in ogni caso come buon volume di appoggio, per la filmografia commentata, costruita su schede ragionate, contenenti materiali originali e di repertorio e, soprattutto, per l'approfondito e ricco intervento sul ruolo della musica nei film di Edwards, con particolare riferimento alle indimenticabili colonne sonore firmate da Henry Mancini - chi non ricorda, solo per citarne una, quella di "Colazione da Tiffany", con la canzone-leitmotiv "Moon River", premiata con l'Oscar?
Un piccolo rimpianto, rispetto a questo revival nostrano, rimane. È un peccato, infatti, che non sia stata ripubblicata, aggiornata, la bella monografia di Roberto Vaccino (uscita nel 1980 dalla Nuova Italia, "Il Castoro Cinema"): uno studio denso e a tutto tondo, soprattutto nell'analisi dei personaggi edwardsiani che "sfuggono di lato ad ogni confronto troppo brusco con il mondo, nell'incapacità radicale di assumerne il profilo eccessivamente indurito, e dispiegano una varia fenomenologia, lirica e comica insieme, di disadattati e inquieti, di goffi e di malinconici, di sognatori e di alcolisti per via di troppi sogni svaniti".
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