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Quasi impossibile recensire questo album di Miles Davis, non fosse altro perché è uno dei dischi jazz più celebrati di sempre, probabilmente tra i 5 album più “famosi” dell’intera storia del jazz. A Bitches Brew sono stati dedicati libri e l’album viene puntualmente ristampato, a oltre 50 anni dalla sua pubblicazione (marzo 1970). Si tratta quindi di un capolavoro e l’unica cosa che mi sento di dire che è super indicato anche a chi ha in animo di cominciare un’esplorazione del jazz (se ancora non lo frequenta) oppure per chi vuole arricchire con un pezzo pregiato la propria collezione di vinili. In questo secondo caso, vale la pena segnalare la bellissima copertina, opera di Mati Klarwein, che già aveva realizzato quella di un altro capolavoro, l’album Abraxas di Carlos Santana. Insomma, un acquisto super consigliato. Consegna IBS puntuale e precisa come sempre.
capolavoro assoluto
Bitches Brew è uno scorcio di quella torrida giungla elettrica dov’è Davis si è ampiamente infiltrato dal 1967 sfornando album del calibro Miles in the Sky, Filles De Kilimanjaro, In A Silent Way e per l’appunto il maestoso e divino Bitches Brew. E una fotografia dei Sessanta che trapassano nei Settanta. Inevitabilmente: battesimo di un jazz-rock che è già fusion, e cioè fusione, nelle strutture della jam psichedelica proprie dell’epoca (Davis vorrà dividere il palco con gente come Grateful Dead e Santana), di jazz, rock, elementi etnico-esotici e della classica contemporanea (in Europa, in questo stesso contesto, si muovono i Can). Premesso ciò, per l’orecchio veramente attento, questo disco non può non suonare ancora come modernissimo, e quindi, in quest’epoca post-post, profondamente datato, noioso. Padre, Miles, dopo questa primogenitura, di tanti di quei figli degeneri. La decostruzione maceriana (esposta in primo piano, con le brusche cesure e gli abbassamenti di dinamica dell’iniziale Pharaoh’s Dance; con la voce di Davis che dirige nella title track) diluisce i temi e sublima la pulsazione funk, crea atmosfere umide e sospese, intensamente chiaroscurali, lunghe divagazioni dominate da una selva di intrecci percussivi, la tromba di Miles più ruvida, aggressiva che mai. Fino alla conclusiva, elegiaca, Sanctuary. Costruito per sfruttare il successo di questa nuova musica chiamata rock, il disco vendette in poco tempo mezzo milione di copie, accolto molto bene anche dalla critica. Eppure, il vice-direttore di Rolling Stone, Ralph J. Gleason, accusò Macero di avere ucciso il jazz con quella sua cosmetica di studio. E in Italia si parlò di un “Davis elettronico”. Tutto falso e tutto vero. Perché siamo sicuri che la rivoluzione del taglia e cuci digitale Davis l’avrebbe apprezzata e anche molto.
Recensioni
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